“Imparare a baciarsi, a toccarsi, ad abbracciarsi, a darsi uno schiaffo. Pina Bausch mi ha insegnato a uscire dalla zona di comfort del ballerino e io ora lo insegno ai danzatori dell’Opera di Parigi”.
Beatrice Libonati, storica danzatrice e assistente del Wuppertal Tanztheater, ha rimontato il Barbablù all’Opéra National de Paris, in scena al Palais Garnier fino al 14 luglio.
Il celebre capolavoro di Pina Bausch, creato nel 1977 su musica di Bela Bartók, arriva sul palco del Palais Garnier ed entra nel repertorio del Balletto dell’Opera parigino. È un rituale selvaggio e intenso, che mette in scena la sete di potere di un uomo, i suoi desideri e le sue fantasie.
La fiaba originale di Perrault è l’ispirazione per questo importante pezzo del Tanztheater che mette a nudo la violenza e l’assurdità dei rapporti umani. E scardina certezze.
Chiusi in una serie di gesti ripetuti fino allo sfinimento, i personaggi tragici tracciati dalla grande coreografa tedesca ci trascinano in un mondo dove convergono seduzione e dominio. Tanti i Barbablù e tante le Giuditte (le mogli), oltre ai due personaggi principali.
Blaubart. Beim Anhören einer Tonbandaufnahme von Béla Bartóks Oper “Herzog Blaubarts Burg” (Barbablù. Ascoltando una registrazione dell’opera di Béla Bartók “Il castello del duca Barbablù”) di Pina Bausch va in scena per la prima volta nel 1977 al Tanztheater Wuppertal. Gli interpreti principali sono Jan Minarik e Marlis Alt.
A partire dal 1979, Pina Bausch assegna la parte principale femminile a Beatrice Libonati. Oltre ai due protagonisti sono presenti in scena, in un salone con un pavimento coperto di foglie secche, una dozzina di danzatori e altrettante danzatrici, che formano a loro volta delle coppie.
Beatrice Libonati, questo è il ritorno a un pezzo che per lei ha segnato un’interpretazione importante.
“L’ho interpretato con Jan Minarik, mio marito (purtroppo recentemente scomparso, ndr), sia a Wuppertal sia in tournée nel mondo. È uno spettacolo che coinvolge a fondo i sentimenti e li trasforma in altri sentimenti. È stato proprio Jan, all’epoca, a raccontarmi la genesi di questo lavoro di Pina. La creazione arrivava dopo una crisi della compagnia e una scissione interna. Solo un piccolo gruppo di danzatori, cinque storici ballerini fra cui mio marito, Marlis Alt, Yolanda Meyer, Tjitzke Broersma, Ed Kortland e l’allora partner di Pina, lo scenografo Rolf Borzik, presero parte alla creazione di questo lavoro. In una piccola stanza, la scuola di Jan Minarik lontano dai luoghi abituali di prova. Poi, però, anche gli altri artisti rientrarono una alla volta nella produzione. E si ritrovarono tutti insieme ancora una volta.
Tanti i Barbablù e tante le Giuditte: perché?
Nel cast iniziale c’erano 10 uomini e 13 donne, oltra ai due personaggi principali. La loro figura era replicata in modo che ogni spettatore potesse leggere la storia a modo suo. Bausch vedeva in ognuno di noi una parte di Barbablù e una parte di Giuditta. Non dava mai risposte, se mai generava interpretazioni nel pubblico. In tutti gli uomini c’è un po’ di Barbablù e in tutte le donne un po’ di Giuditta. In fondo questa battaglia è dentro di noi e ognuno la può vedere come crede.
Non è quindi uno spettacolo che parla di prevaricazione maschile?
È un punto di vista di voi critici e giornalisti. Ma se si ascolta la musica di Béla Bartók fino in fondo e si legge il libretto di Bela Balasz ci si accorge dell’idea geniale del librettista: le donne non muoiono. Muore solo la donna principale e, mentre muore, vede tutte le altre donne continuare a vivere. C’è anche molta leggerezza nello spettacolo. Il giardino dei tesori, con le coppie formate da uomini in camicia bianca e donne in sottoveste, sono momenti leggeri. C’è una vitalità pazzesca nella creazione, nonostante il racconto prenda spunto da una fiaba davvero inquietante: Barbablù che uccide tutte le sue mogli.
Cosa ha provato nell’interpretare la parte di Giuditta?
Per me è stato come scoprire un altro mondo. Ero talmente dentro che non posso dividere l’interpretazione da ciò che ero mentre interpretavo il pezzo. Credo di aver davvero vissuto appieno quel ruolo di Giuditta. Il direttore che vide la generale mi paragonò alla Magnani della danza. Per la drammaticità. E per me fu un grande complimento.
Perché il Teatro dell’Opera di Parigi ha voluto rimettere in scena il Barbablù?
Per far vivere un’esperienza diversa ai danzatori. Qualcosa di profondo anche a livello drammatico. Salomon, il figlio di Pina alla guida della Fondazione Bausch, chiese a me e a mio marito se volevano intraprendere questo percorso già prima della pandemia. Lo abbiamo rimontato per Wuppertal già nel 2019 e nel 2020 ma poi Jan è morto. Rimontarlo da sola per me non è stata la stessa cosa. Ma ho avuto con me alcuni assistenti. Ho formato, come direttrice artistica, un team di quattro ragazzi che avevano già lavorato nel 2019 e 2020 con Jan e con me: composto da Michael Carter, Silvia Farias Heredia, Sara Valenti, Lucas Lopes Pereira. Davvero bravissimi.
Come si è trovata a lavorare con i ballerini dell’Opera?
Abbiamo dovuto parlare moltissimo. Per loro il teatro danza era un altro mondo: non si baciano in scena, non si accarezzano, quando bisognava dare uno schiaffo non ce la facevano giudicandolo scorretto. Ho cominciato il 29 aprile e ho lavorato per mesi. Entrare nel mondo di Pina non è solo indossare un vestito ma mettersi il vestito dentro, tirare fiori cose interiori, anche la vergogna, per diventare attori vivi. Sulla questione dello schiaffo ho dovuto spiegare il perché succedeva questo. Cercare i motivi e raccontarli. Ai ballerini piaceva ascoltare, si sedevano tutti attorno. Spiegavo loro che non dovevano avere paura, che non li giudicavo, che potevano anche sbagliare. Sono abituati a essere perfetti e sembravano spaventati. Ma alla fine c’è stata fiducia piena e totale. E tutto questo lavoro è stato riscontrato sin dalla prima del 22 giugno.
La scena del Barbablù che più le è rimasta dentro di questa ripresa?
Il momento musicale del duetto fra Giuditta e Barbablù verso la fine dello spettacolo. Lui cerca di violentarla ma lei si libera e fugge contro il muro mentre lui rimane a guardarla. C’è un momento musicale con un suono della cantante molto acuto. Quella scena la interpretavo con mio marito Jan.
Durante le prove vedere la coppia dell’Opera interpretare quel duetto è stata un’emozione così forte che ho sentito il bisogno di abbracciarli entrambi. Non riuscivo a trattenere il sentimento, i miei assistenti mi accarezzavano e tutta la compagnia se ne stava in silenzio. La reazione dei danzatori è stata pazzesca. Tutto fermo. Questo vuol dire molto per me, mi incoraggia a continuare nel lavoro di trasmissione.
Quando è andata via dal Wuppertal?
Sono uscita dalla compagnia nel 2006, tre anni prima che morisse Pina. Poi ho avuto bisogno di tempo per liberarmi di tante cose: mi sono rifugiata nella natura e nella poesia. Lavorare con lei è stata un’esperienza forte e possessiva. Totalizzante. Ma in quel processo creativo, durato oltre 40 anni, un artista tira fuori sé stesso. È normale che poi si debba ritrovare.
Simona Griggio