Il 42. Festival Internazionale del Teatro della Biennale di Venezia, presieduta da Paolo Baratta, si svolgerà quest’anno dall’1 all’11 agosto secondo il programma delineato dal Direttore Àlex Rigola. Al centro del Festival è Biennale College – Teatro, la nuova linea strategica della Biennale che coinvolge tutte le discipline ed è rivolta alla formazione di giovani artisti, offrendo loro di operare a contatto di maestri per la messa a punto di “creazioni”. Nata dall’evoluzione delle attività laboratoriali di Danza e Teatro, Biennale College si caratterizza per un’idea di “trasmissione del sapere – afferma il Presidente Paolo Baratta – che porta a realizzare, sia che si tratti di un grande spettacolo, sia che si tratti degli esiti di un workshop”. E’ all’interno del Festival che verranno presentate le nuove creazioni di Biennale College – Teatro, stabilendo un rapporto diretto e fecondo tra creatività e Festival.
Àlex Rigola ha immaginato questa edizione del Festival costruita attorno ad artisti di primissimo piano, che hanno contribuito al rinnovamento della scena internazionale degli ultimi decenni: attori, scenografi, drammaturghi, registi, performer come Ute Lemper, Angélica Liddell, David Espinosa, Guy Cassiers, Dirk Roofthooft, Krystian Lupa, Thomas Ostermeier, Anna Viebrock, Florian Borchmeyer, Declan Donnellan e Nick Ormerod, Enrico Casagrande e Daniela Nicolò (Motus), Romeo Castellucci, Gabriela Carrizo (Peeping Tom), Claudio Tolcachir, Jan Lauwers, Marcos Morau con La Veronal, Wajdi Mouawad, Fausto Paravidino. Tutti artisti che a Venezia si faranno maestri dei giovani selezionati per 1 masterclass e 16 percorsi laboratoriali di Biennale College – Teatro, 8 dei quali si concluderanno in nuove creazioni e performance aperte al pubblico. I maestri presenteranno inoltre uno spettacolo scelto fra quelli più significativi della loro poetica e parteciperanno ad un incontro con il pubblico del Festival.
Seguendo la proposta di Rigola sarà soprattutto attorno al confronto con i classici, in primo luogo Shakespeare, che questa ampia interrogazione si misurerà, attraverso i diversi percorsi laboratoriali, con il processo creativo degli artisti coinvolti e dei partecipanti selezionati.
Nei percorsi laboratoriali proposti ci sarà occasione per una masterclass con Ute Lemper; 5 workshop convergono invece sui personaggi shakespeariani, scelti e visti secondo gli approcci radicalmente diversi di altrettanti artisti – Angélica Liddell, Gabriela Carrizo, Krystian Lupa, Claudio Tolcachir e Jan Lauwers. Dal lavoro di questi maestri con i giovani selezionati nascerà Shakespeare, un percorso in 5 spettacoli, mostrato l’ultimo giorno del Festival in 5 luoghi della Giudecca. Due compagnie, La Veronal e Motus, daranno invece una versione site specific dello spettacolo in programma nel Festival, mutato di segno proprio con l’apporto dei giovani che parteciperanno al laboratorio veneziano. Anche Romeo Castellucci, Leone d’oro alla carriera del 42. Festival Internazionale del Teatro, riserverà al Festival un lavoro specifico, nato dal workshop dal titolo enigmatico Il Significato di. Sempre su testi shakespeariani si misureranno i giovani che seguiranno i workshop di Declan Donnellan e di Thomas Ostermeier, che affronteranno problematiche diverse in rapporto ai classici, come il lavoro d’ensemble e la riscrittura registica. Sul terreno della drammaturgia i workshop spaziano da Wajdi Mouawad a Florian Borchmeyer e Fausto Paravidino. Anna Viebrock lavorerà sull’idea scenografica in rapporto alla drammaturgia mentre Dirk Roofthooft interverrà sulla recitazione e Andrea Porcheddu sulla critica teatrale.
La domanda di partecipazione a Biennale College – Teatro scade il 3 giugno. Tutte le informazioni all’indirizzo www.labiennale.org/it/teatro/college-teatro
UTE LEMPER E ÀLEX RIGOLA
E’ stata danzatrice per Béjart e Pina Bausch, attrice per Altman e Greenaway, Luciano Berio l’ha voluta per le sue Folk Songs a Firenze e alla Scala, per lei hanno scritto Elvis Costello, Philip Glass, Michael Nyman, Nick Cave, Tom Waits; ha calcato i palcoscenici dei teatri più importanti e inciso per le maggiori case discografiche, vinto il Molière e il Laurence Olivier ed è stata ripetutamente nominata artista “crossover” dell’anno da Billboard Magazine: Ute Lemper è celebrata come una delle più grandi artiste dei nostri giorni. Sarà lei ad inaugurare il 42. Festival del Teatro della Biennale di Venezia venerdì 2 agosto con un recital di canzoni di Brecht e Weil al Teatro La Fenice (ore 21.30).
Con il fascino delle dive di un tempo, da Marlene Dietrich a Lotte Lenya e Edith Piaf che considera sue mentori e di cui è naturale erede, Ute Lemper abbraccia un repertorio sterminato, il cui punto fermo è nel Kabarett degli anni fra le due guerre (di Kurt Weill ha inciso l’integrale) e si allarga alla canzone d’autore francese di Brel, Ferrè, Vian, ai canti yiddish e dell’est europeo, ai leggendari musical (Cats, Cabaret, Chicago), al tango di Astor Piazzolla fino al jazz. Ma qualunque cosa canti Ute Lemper vi imprime la sua anima, perché, come ha scritto presentando il proprio disco Illusions: “Ogni canzone è una pièce di teatro che racconta di un paradiso perduto, e ci parla di oggi, e di noi”.
E’ in occasione della presenza veneziana che Ute Lemper terrà una unica masterclassdestinata a 20 attori e cantanti e 10 uditori il 2 agosto al Teatro La Fenice di Venezia.
La giornata inaugurale sarà introdotta da una sorpresa: il debutto a Venezia del Direttore Àlex Rigola in qualità di regista con uno spettacolo in prima assoluta. Autore di incisive riscritture di grandi classici che lo hanno reso noto oltre i confini della Spagna e anche in Italia, come la trilogia shakespeariana – Giulio Cesare, Tito Andronico, Riccardo III, cui si sono poi aggiunti Coriolà e lo scorso anno Mcbth (Macbeth), Àlex Rigola ha frequentato molta drammaturgia moderna e contemporanea ma ha messo in scena anche testi di scrittori celebri, come il romanzo incompiuto di Roberto Bolaño, 2666. E a Bolaño, autore di culto, torna Rigola con l’adattamento per le scene del racconto El polícia del las ratas (Teatro alle Tese, ore 19.00, in replica il 3, 5, 6, 7 agosto). Tratto dalla raccolta Il gaucho insostenibile, il racconto è l’inchiesta del detective Pepe el Tira che, sulle tracce di un killer seriale, rovista nei bassifondi limacciosi della società, un mondo dai risvolti assurdi di matrice kafkiana.
SHAKESPEARE E OLTRE
Dei 5 registi e performer che hanno scelto di lavorare sui personaggi shakespeariani Angélica Liddell è certamente la più estrema. Per l’artista catalana, che è autrice di opere di narrativa, poesia, drammaturgia oltre che attrice e regista, la scrittura sembra una scelta necessaria e il suo teatro inciso sulla carne. In patria lo hanno definito un campo di battaglia in cui l’arte nasce dal conflitto, vi hanno letto la “ricerca del senso attraverso il dolore e la ribellione” (Oscar Cornago), e hanno già riconosciuto premi al “talento raro e scomodo” (El País) della sua artefice, come il Premio Nacional de Literatura Dramático 2012. Non sorprende che per il suo workshop la Liddell abbia scelto Lucrezia, protagonista del poemetto The rape of Lucretia che Shakespeare scrisse nel 1594, dando voce alla dolente invettiva di una donna contro la violenza subita, quella che Fassbinder chiamava “la violenza del più forte”. Sarà interessante vedere la versione che ne darà la Liddell nella giornata finale del Festival.
Per la prima volta alla Biennale, che le conferisce il Leone d’argento del 42. Festival Internazionale del Teatro, Angélica Liddell, oltre a lavorare sul personaggio di Lucrezia, porta a Venezia un’anomala riscrittura di Riccardo III di Shakespeare, passato alla storia come uno dei ritratti più feroci e conturbanti del potere. El año de Ricardo, così si intitola questa riscrittura radicale, arriva in prima italiana dopo il trionfo avignonese e una lunga tournée (8 agosto, Teatro alle Tese, ore 21.00). Angélica Liddell è in scena e vomita il suo lungo monologo come in preda a una trance auto-distruttiva, affiancata dalla sola presenza, muta, del consigliere William Catesby (Gumersindo Puche). La performance urticante di Angélica Liddell – che è un tour de force fisico, psicologico e morale – trasforma la discesa vertiginosa negli abissi del male del testo shakespeariano in un violento atto d’accusa contro i crimini di cui si è macchiato l’uomo anche ai nostri giorni: dalla distruzione e dalle sofferenze di guerre e genocidi agli abusi di dittature e imperialismo. Rimuginato per ben cinque anni, il testo shakespeariano per la Liddell è infatti il modo di parlare “senza censure e buonismi” dei problemi concreti e dei mali della nostra epoca. “Mettere in scena una pièce così è una scommessa non da poco – hanno scritto – può disturbare quella brutalità mai gratuita ma al limite del sopportabile, oppure inchiodare alla poltrona avvinti da quell’umanissima belva, ritratto fagocitante e lancinante della nostra società” (F. Motta, Il Sole 24 ore).
All’incrocio tra danza e teatro, la poetica onirica di Gabriela Carrizo, che annulla le barriere fra reale e immaginario alternando un linguaggio crudamente realistico ad una sensibilità allucinata, si misurerà per il 42. Festival con la fragilità e l’ambiguità del personaggio di Ofelia, scelto dall’artista per uno dei 5 tasselli che costituiscono il percorso laboratoriale e creativo sui personaggi shakespeariani.
Argentina, Gabriela Carrizo si forma nella fertilissima area della danza e del teatro fiamminghi, con i Ballets C de la B di Alain Platel e con la Needcompany di Jan Lauwers, prima di dar vita con Franck Chartier, nell’anno 2000, aPeeping Tom, la propria compagnia di stanza a Bruxelles. A Venezia si vedrà uno degli ultimi successi, 32 rue Vandenbranden(10 agosto, Teatro alle Tese, ore 19.00).
Si respira un’atmosfera da incubo in rue Vandenbranden, un senso di minaccia incombente, e tutto sembra alludere fin dall’inizio, nonostante l’iperrealismo della scenografia, ad uno spazio della mente: un paesaggio nordico, dalle luci plumbee, innevato, la cima di una montagna flagellata dal vento, alcune caravan fatiscenti, più rifugi di fortuna che vero riparo. E’ una situazione estrema in cui vive una piccola comunità isolata, i cui individui – una giovane coppia di fidanzati, una donna incinta, due amici – più che attrarsi si respingono e dove la differenza tra la realtà e la loro percezione personale viene sospesa. Lo stesso accade allo spettatore, che spia voyeuristicamente lo svolgersi dello spettacolo dietro le finestre delle baracche e rimane irretito in questo viluppo visionario, ne avverte la pressione emotiva, mentre insegue i personaggi che svaniscono, si perdono, si trasformano, sprofondano nelle loro inquietudini restando prigionieri della propria solitudine. Seguendo uno sviluppo per micro-narrazioni, in cui più che azioni i Peeping Tom mettono in scena condizioni esistenziali e situazioni, è allo spettatore che spetta ricomporne i frammenti in una personale visione. I diversi elementi dello spettacolo trovano unità nella qualità del movimento, cifra stessa dei Peeping Tom: virtuosismi acrobatici estremi, al limite del contorsionismo, e gestualità scomposta, a tratti nevrotica, perfettamente interpretata grazie all’elasticità dei corpi dei sei perfomer.
Punto di riferimento nel mondo teatrale europeo, Krystian Lupa è fra i registi, insieme alla Liddell e alla Carrizo, chiamati a comporre il mosaico di creazioni frutto dei workshop con giovani danzatori e attori sui personaggi shakespeariani, visibili al pubblico l’ultimo giorno del Festival.
Attivo presso lo Stary Teatr e docente alla Scuola statale di teatro di Cracovia, il regista polacco appartiene a un teatro un tempo definito d’arte e ha influenzato diverse generazioni di artisti nel suo paese. Privilegiando il confronto con le forme del narrare, Lupa è autore di un teatro “che non reinventa ma fa rivivere sul palcoscenico la letteratura (sia essa Dostoevskij, Musil o Bernhard)” con spirito analitico, seguendo passo dopo passo l’esplorazione dell’animo umano e delle sue azioni. E’ un teatro lontano dai ritmi sincopati di oggi, fatto di realismo psicologico ed espressionismo della scena, costruito nei minimi dettagli, esattamente come i testi cui si rifà.
E’ dal celebre monologo di Amleto “Go to a Nunnery!” che prende le mosse l’analisi dei personaggi proposta da Lupa per il workshop e la creazione collettiva intitolata a Shakespeare. Della sua ampia produzione, invece, il 42. Festival presenterà Ritter, Dene, Voss (7 agosto, Teatro Goldoni, ore 21.00), fra gli spettacoli di maggior successo del regista polacco e meritatamente il più longevo, ancora oggi interpretato dallo stesso cast di attori. Creato nel 1996 come ultimo capitolo di una trilogia bernhardiana, dopo La fornace e Immanuel Kant, Ritter, Dene, Voss ha aperto due anni fa il Taipei Arts Festival. Al centro della vicenda, scritta da Thomas Bernhard nell’84, sono le due sorelle Dene e Ritter e il fratello Voss, filosofo che ha scelto la pazzia e si è fatto rinchiudere. Il ritorno a casa di Voss, nella cui vicenda Bernhard adombra quella di Wittgenstein, mette in moto le perverse dinamiche familiari che governano i personaggi, ne fa esplodere il conflitto tra ribellione e rassegnazione, innesca un gioco al massacro che si consuma davanti al simbolo dell’unità familiare, della convivialità e della tradizione borghesi, la tavola imbandita della sala da pranzo. La scena claustrofobica ideata dallo stesso Lupa amplifica l’asfissia dei rapporti che trasuda dai personaggi.
Il quarto capitolo sui personaggi shakespeariani per dar vita a Shakespeare si svolgerà con Claudio Tolcachir, che insieme a Rafael Spregelburd e Daniel Veronese, è uno dei nomi di punta del teatro indipendente argentino, oggi più che mai presente sulle scene europee. Attore, drammaturgo e regista, artefice totale dei suoi spettacoli, Tolcachir plasma il suo lavoro sulla scena, con gli attori: “Il teatro è un processo complesso di cui non si dovrebbero vedere i meccanismi, un processo in cui le parti dovrebbero fondersi in un’unità che attraversa il nostro corpo, ci emoziona e poi ci fa anche riflettere – afferma Tolcachir. Però il teatro è prima di tutto i suoi attori”. Coinvolti nella creazione, gli attori selezionati per il workshop con Claudio Tolcachir lavoreranno sul protagonista della “tragedia scozzese”: Macbeth.
Accanto allo spettacolo Shakespeare, di Tolcachir il Festival presenta El viento en un violín (5 agosto, Teatro Goldoni, ore 21.00), terzo capitolo della trilogia avviata con La omisión de la familia Coleman e rappresentata in più di trenta paesi. Un risultato che ha sorpreso lo stesso Tolcachir, partito da un teatro letteralmente fatto in casa nell’Argentina degli anni della crisi economica, quando alle soglie del nuovo millennio fonda il primo nucleo della sua compagnia, Timbre4, che indica il numero del campanello della sua casa-teatro, che è anche una scuola che è anche una compagnia.
El viento en un violín conferma i tratti originali della scrittura di Tolcachir, fatta di ritmi concitati e toni tra il surreale e il tragicomico, capaci di stemperare la feroce analisi delle dinamiche relazionali, tra precarietà dei legami e ambiguità dei sentimenti. A cadere sotto la lente di Tolcachir è il nucleo relazionale per eccellenza, la famiglia, quella un po’ sgangherata dei nostri giorni. Nel Viento en un violín protagonisti sono infatti una coppia omosessuale che desidera a tutti i costi un figlio da una parte, e un giovane viziato dominato dalla madre dall’altra. I due nuclei, così lontani per estrazione sociale, personalità e scelte di vita, per una serie di coincidenze, qui pro quo e colpi di scena incroceranno le loro esistenze, grazie a quell’unico motore che ci governa, la ricerca dell’amore e della felicità. E saranno fuochi d’artificio.
Il regista fiammingo Jan Lauwers completa la rosa dei registi che daranno vita a Shakespeare, il percorso creativo sui personaggi shakespeariani nell’ultimo giorno del Festival. Se cifra di Lauwers è la felice sintesi di diversi codici artistici – danza, teatro, cinema, musica e arti visive – gli spettacoli ispirati ai testi shakespeariani, tutti firmati con la Needcompany da lui fondata con Grace Ellen Barkey, non potevano che essere personalissimi. Giulio Cesare, Antonius und Kleopatra, Needcompany’s Macbeth e Needcompany’s King Lear dichiarano fin dal titolo il particolare punto di vista. Alla Biennale Lauwers tornerà proprio sul personaggio di Re Lear, esaminandone l’atto finale. Se Shakespeare è un creatore di immagini, Lauwers è alla ricerca “dell’immagine assoluta”, quella che supera il contingente, o “immagine-limite”che secondo Lauwers si raggiunge “quando il tempo sembra fermarsi e l’immagine si incide nella memoria”.
Con la Needcompany verrà presentato anche l’ultimo successo di Jan Lauwers, Marketplace 76 (6 agosto, Teatro alle Tese, ore 21.00). Secondo un metodo caro al regista, Jan Lauwers intreccia come in un caleidoscopio le vite e le storie degli abitanti di un villaggio, colto nella commemorazione di un evento tragico: l’esplosione di gas che l’anno precedente aveva causato 24 morti, fra cui anche bambini. Su questo sfondo si innesta poi un’altra storia fatta di violenza, che innesca la ritorsione e l’ostracismo della comunità. Al fondo c’è un tema che ha sempre affascinato Lauwers: i meccanismi che governano gli individui in una comunità, il rapporto conflittuale tra individuo e società, il problema della colpa e dell’espiazione, della giustizia e dell’ingiustizia.
Lauwers, che nello spettacolo veste i panni del narratore, attinge a un intero arsenale di strumenti teatrali: video, burattini, numeri di danza e di canto, mimo, performance, tutto finisce in scena in una costruzione polifonica che mescola tragedia e commedia, realtà e fantasia.
Accanto al percorso in 5 spettacoli sui personaggi shakespeariani, altri due laboratori, rispettivamente con Declan Donnellan e Thomas Ostermeier, si svolgeranno sul mondo teatrale del Bardo.
Declan Donnellan, fra i più influenti registi europei ad aver affrontato i grandi classici della drammaturgia di tutto il mondo, pescando nel ricchissimo teatro elisabettiano, giacobino e della Restaurazione, nel teatro classico tedesco e francese, nel siglo de oro del teatro spagnolo, in quello russo, ma anche nella grande letteratura, alla Biennale propone un workshop intitolato Misura per misura: testo classico e ensemble. “La grande recitazione” dice Donnellan, “è qualcosa che ha luogo nello spazio tra gli attori e non nel recitare in sé”, così come il compito del regista non è “avere una visione di come mettere in scena un testo”, ma aiutare tutti gli attori come fossero un unico ensemble, così che ogni parte cresca in unisono con quella degli altri.
Declan Donnellan e Nick Ormerod a Venezia porteranno per la prima volta in Italia il loro ultimo spettacolo: Ubu Roi (4 agosto, Teatro La Fenice, ore 19.00). Dopo l’esperienza con la compagnia russa a Mosca, Donnellan torna a dirigere la stessa compagnia francese con cui aveva messo in scena Andromaca di Racine su invito di Peter Brook nel 2007, un successo internazionale destinato a replicarsi con Ubu Roi.
Nato dalla penna di Alfred Jarry, inventore della scienza delle soluzioni immaginarie, e anticipatore del surrealismo e del teatro dell’assurdo, Ubu Roi, che è una feroce satira sul potere e il suo fascino, non ha mai smesso di scatenare la fantasia di registi, scrittori, attori, resistendo alle più svariate interpretazioni.
Tocca a Declan Donnellan e Nick Ormerod, complice di tutti i suoi lavori, mettere in scena in lingua francese il testo patafisico, sia esso il lavoro di uno scolaro (era nato infatti sui banchi di scuola come burla di un professore) o il prodotto di un genio. “Apparteniamo a una specie che preferisce evocare l’innocenza dell’infanzia piuttosto che ricordare la sua potenziale crudeltà – dichiarano gli autori, per poi aggiungere subito dopo: Ci ricordiamo l’egoismo e la violenza della nostra infanzia?”. Donnellan e Ormerod immaginano un’ambientazione domestica per la pièce, con un immacolato salotto middle class; ma non appena il figlio della coppia che vi abita indugia con la sua telecamera sui particolari di pareti, mobili, tappeti, emergono le tracce di una trascuratezza e di una volgarità destinate a esplodere come una forza sotterranea. La granguignolesca vicenda di Padre e Madre Ubu, con la lotta per il regno di Polonia e la catena di sangue che innesca, scorre e si intreccia – tra una portata e l’altra – alla cena pretenziosamente elegante della coppia di piccoli borghesi allestita per gli amici. Con magistrali cambi di luce, la coppia e i suoi invitati si trasformano nei personaggi di Jarry, dando sfogo ai loro istinti più brutali e trasformando la linda casetta in un campo di battaglia. Donnellan e Ormerod ci riportano al giorno d’oggi e costruendo un contrasto fra i due mondi, ne rivelano la comune matrice.
Autore di graffianti riletture dei classici, come l’Amleto presentato alla scorsa Biennale Teatro, Thomas Ostermeier sarà di nuovo a Venezia e i giovani attori e registi selezionati per Biennale College potranno seguire il suo workshop – Ri-dirigere i classici – focalizzato sui testi di Shakespeare. Il Festival presenterà, inoltre, in prima italiana il suo ultimo successo, che ha suscitato clamore per il coinvolgimento diretto del pubblico in sala, mai così partecipe ovunque sia stato presentato: Un nemico del popolo di Ibsen (10 agosto, Teatro Goldoni, ore 21.30), autore spesso rivisitato da Ostermeier. Ad attirare il regista tedesco verso i drammi di Ibsen “sono i personaggi, sempre sotto pressione economica. Ibsen descrive la società borghese del XIX secolo dove l’economia interferisce nelle relazioni umane” (Time Out). E’ così anche per Un nemico del popolo, testo quasi dimenticato del drammaturgo norvegese, ma di bruciante attualità: è la storia del dottor Stockman messo al bando da un’intera comunità per timore di un collasso economico del paese nel momento in cui cerca di denunciare l’inquinamento delle acque delle terme locali. “E’ un testo in cui si vedono gli effetti distorti di questa pressione economica su un’intera comunità, dove la sopravvivenza dipende dalla possibilità di vendere acqua contaminata. In questo contesto, il conflitto tra verità e falsità, o meglio tra verità e potere, suona stranamente contemporaneo, colpendo le contraddizioni stesse del sistema economico” (T. Ostermeier, Time Out). Alla fine ciò a cui mira il dottore non è soltanto l’inquinamento letale delle terme, ma l’intera società. Il dramma di Ibsen si muove sul filo sottile che separa l’onestà dal fanatismo. Ma che possibilità ha la trasparenza in una società dominata dall’economia? E’ la domanda che si pone Ostermeier affrontando il testo. Che tocca temi di scottante attualità nella versione profondamente rimaneggiata dal regista, coadiuvato dal dramaturg Florian Borchmeyer: l’assemblea cittadina convocata dal dottore per denunciare la verità si trasforma in un dibattito con il pubblico in platea; il tema dell’inquinamento ecologico diventa quello della corruzione politica e della crisi economica; il j’accuse del dottore diventa la denuncia dei mali del capitalismo e del suo imminente collasso citando passi interi dell’Insurrection qui vient, pamphlet di un collettivo anarchico circolato su internet; infine – con il disincantato cinismo dei nostri giorni – cambia il finale. Al dottor Stockman verranno infatti regalate dal suocero, che è anche il responsabile della contaminazione delle acque, le azioni della società termale e sulla sua scelta calerà un ambiguo silenzio.
Un altro Shakespeare via Tim Crouch è quello che Fabrizio Arcuri, fra i protagonisti della scena nazionale a partire dagli anni novanta con la sua Accademia degli Artefatti,farà conoscere al pubblico del Festival. Da tempo attento alla scena britannica di Sarah Kane, Martin Crimp, Mark Ravenhill, Arcuri ha messo in scena i testi di Tim Crouch, attore prima che commediografo, fin dagli esordi nel 2003. Ed è a Tim Crouch che va il merito di aver affrontato Shakespeare “dalle retrovie”, scegliendo di raccontare commedie e tragedie del Bardo ricorrendo allo sguardo dei comprimari, dei personaggi minori, di chi non ha voce. Sono I Cinque monologhi sul potere e la violenza di cui l’Accademia degli Artefatti presenterà al Festival una scelta in tre giorni consecutivi 6, 7, 8 agosto (Teatro Piccolo Arsenale, ore 19.00): Calibano dalla Tempesta, Fiordipisello, dal Sogno di una notte di mezza estate, entrambi già realizzati, e un terzo capitolo in fase di realizzazione, in forma di studio, intitolato a Cinna, dal Giulio Cesare.
SITE SPECIFIC
Per il 42. Festival Internazionale del Teatro la compagnia catalana La Veronal, gli italiani di Motus e Romeo Castellucci terranno ognuno workshop finalizzati ad una creazione site specific.
Per Marcos Morau e la sua compagnia La Veronal, fondata nel 2005, è un metodo di lavoro sperimentato: far nascere gli spettacoli nei luoghi che li ospitano o plasmarne le linee fondamentali suggestionati da spazi sempre diversi e soprattutto attingendo alle forze artistiche e alla storia di nuove città e nuovi paesi. Così accadrà a Venezia, dove per Lospájaros muertos, Morau lavorerà con un gruppo di attori e danzatori selezionati nell’ambito di Biennale College – Teatro, destinati a ricreare lo spettacolo con la compagnia originaria (9 agosto, Campo San Francesco della Vigna, ore 22.00).
Nato per il Museo Picasso di Barcellona nel 2010, Los pájaros muertos riprende il titolo di un’opera del periodo cubista del pittore catalano. Attorno a questa figura monumentale si sviluppa l’opera di Marcos Morau, costruita per tableaux vivantes in cui i corpi dei danzatori-attori si fanno racconto. Nello spettacolo sono evocati i primi decenni del secolo scorso, un periodo storico di cui siamo eredi diretti, con l’avanguardia francese e la tradizione spagnola a fronteggiarsi. Picasso stesso è al crocevia di questo incontro-scontro, tra “orgoglio francese ed eccessi delle abitudini spagnole”. Il racconto si snoda attraverso quei personaggi che hanno attraversato la vita del famoso artista, condividendo con lui anni fecondi seppur dilaniati da guerre e violenze, personaggi che sono quasi sempre scomparsi, come inseguendo un destino ineluttabile. Amore, arte, viaggi, morte sono gli ingredienti che compongono questo affresco.
Formata da giovani provenienti da diversi ambiti artistici, la compagnia si è data il nome di un diffuso antidepressivo per sottolineare “tutta l’effervescenza e l’overdose di movimento che la contraddistingue” (El Mundo). Dice Morau: “Utilizzo la danza per parlare di cose che appartengono più propriamente al mondo del teatro o del cinema, ma che proprio grazie all’arte astratta della danza acquistano un segno distintivo”.
Anche i Motus, una delle compagnie italiane più note all’estero, fondata da Enrico Casagrande e Daniela Nicolò nel ’91 insieme a musicisti, disegnatori e scultori con l’intento di dilatare al massimo l’esperienza teatrale, hanno scelto di declinare i loro spettacoli in modo diverso a seconda dei luoghi che li ospitano, in un’ottica di apertura. Per far questo hanno creato i MucchioMisto Workshop, “o atelier nomadi che affiancano e alimentano tutto il percorso di creazione di Nella Tempesta, avviato nel 2011 e che avrà termine nel 2068”. Il MucchioMisto Workshop che avrà luogo a Venezia si intitola Storm chaser e fa riferimento agli ossessionati dalla meteorologia da cui prende esempio, a partire dalle vere e proprie istruzioni che vengono date per affrontare il compito di “cacciatori di temporali”. “D’altronde è una tempesta, anche se metaforica, con cui bisognerà fare i conti. Queste divertenti istruzioni verranno trasposte in ambito drammaturgico per affrontare la ‘tempesta shakespeariana’ e partecipare allo spettacolo stesso, che benché abbia già debuttato, vogliamo mantenere sempre aperto agli attraversamenti e ai contagi… Non dimentichiamo che nell’isola shakespeariana la tempesta e la deriva finiscono essenzialmente per essere portatrici di rinnovamento proprio …when no man was his own. Non si inscena dunque un mondo che finisce, ma un mondo che comincia. Naturalmente chi insegue i temporali, fugge la sorveglianza e deve costruirsi sistemi di protezione e camouflage adeguato… Deve conoscere la natura, rispettarla e seguirne i consigli: in un certo senso ‘stare dalla parte di Calibano’”. La nuova versione di Nella Tempesta, a conclusione del workshop, sarà presentata il 4 agosto al Teatro alle Tese (ore 22.00)
Leone d’oro alla carriera di questo Festival, Romeo Castellucci, che ha fatto del teatro un’arte plastica, complessa, ricca di visioni, sviluppando un linguaggio comprensibile in tutto il mondo, come possono esserlo la musica, la scultura, la pittura e l’architettura, riserverà alla Biennale una creazione site specific, primo capitolo del workshop intitolato Sul Significato di, rivolto a 12 attori e performer e a cui potranno partecipare anche 8 uditori.
DAL TESTO ALLA SCENA
Wajdi Mouawad è uno dei massimi autori di teatro oggi. Un teatro che racconta storie ad alta ingegneria drammaturgica e di rara forza emotiva: l’architettura precisa degli eventi, l’invenzione dei personaggi, il ritmo, la suspense e i colpi di scena, sono tutti elementi dominati magistralmente da Mouawad e messi al servizio della storia. Che non avrebbe senso se non toccasse le nostre corde, appassionando, coinvolgendo, commuovendo il pubblico. Il laboratorio di drammaturgia di Wajdi Mouawad, per cui verranno selezionati 20 fra drammaturghi, attori, coreografi, registi, si focalizzerà proprio sul processo creativo: metterlo in discussione, percepire la relazione con un’idea, manipolare il metodo, frammentare e trasformare il proprio mondo in relazione agli altri sono l’oggetto del suo workshop.
Nonostante il successo francese di Littoral, in Italia si ricorda Majdi Mouawad, libanese naturalizzato canadese ma oggi di stanza in Francia, soprattutto per Incendies, un successo prima teatrale e poi cinematografico, portato sugli schermi da Denis Villeneuve con il titolo La donna che canta.
Autore di grandi affreschi storici e famigliari, ma anche attore e regista, Mouawad sarà a Venezia con Seuls (3 agosto, Teatro Piccolo Arsenale, ore 19.00). La pièce prende spunto da temi autobiografici, come spesso accade per questo autore: l’esilio, l’identità, i rapporti famigliari. Quando nell’esistenza grigia e banale di Harwan, libanese esiliato a Montreal, spaventato dalla sensazione di lasciarsi passare la vita accanto, irrompe il caso ecco che tutto cambia. Per una serie di coincidenze si trova a trascorrere una notte al Museo Ermitage di fronte al quadro di Rembrandt che celebra il ritorno del figliol prodigo: è in questa lunga notte che il protagonista ritrova il contatto con la sua lingua madre, a lungo dimenticata, e con essa gli strati profondi di tutto quello che si è accumulato in lui, la sua infanzia, il rapporto impossibile con il padre, l’esilio, gli inganni della vita. Come la scrittura, anche lo spettacolo segue un’architettura precisa: da un ritmo lento e monotono, nutrito di gesti minimi e di silenzi, sottolineato da una scenografia realistica, passa a un tempo sempre più concitato che deflagra nella scena finale, dove il décor si scompagina e il protagonista, lo stesso Mouawad, ci fa penetrare nelle visioni e negli incubi della sua anima.
Alla scrittura sono dedicati altri due laboratori: il primo con Florian Borchmeyer – dramaturg per Ostermeier, Castellucci e Alvis Hermanis – che concentrerà la sua analisi sull’adattamento e la riscrittura dei classici, partendo dal romanzo di Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo; il secondo con Fausto Paravidino, fra i più giovani e talentuosi autori italiani, ma anche attore e regista, che intitola il suo laboratorio Azione e punto di vista, a sottolineare come “si scriverà e si agirà quello che si scriverà”.
Con un’idea complessa della drammaturgia della scena, Anna Viebrock, scenografa e regista nota in tutto il mondo per la sua “poesia delle piccole cose”, dal ’90 in sodalizio artistico con Christoph Marthaler, terrà un workshop rivolto a 20 tra attori, registi, scenografi, drammaturghi a partire da Morte a Venezia di Thomas Mann, un lavoro nel campo della scenografia in stretta relazione con la drammaturgia dello spettacolo.
Sempre ispirato alla scrittura, sotto forma di critica, elemento indispensabile di ogni civiltà teatrale, sarà il laboratorio di Andrea Porcheddu, che ha scritto per “Il Sole 24 ore” e oggi è presente su varie testate web. Rivolto a giovani critici, ma anche a un disegnatore e un fotografo, i partecipanti selezionati costituiranno la redazione che lavorerà sia su web che su carta, fornendo il “foglio” quotidiano di informazione e approfondimento sul Festival.
LA MAGIA DELL’ATTORE
Sono tre gli ingredienti che fanno di Sunken Red un capolavoro, in scena a Venezia per il Festival del Teatro (3 agosto, Teatro alle Tese, ore 22.00) dopo una tournée destinata a durare ancora a lungo dal debutto nel 2004. Il primo è Jeroen Brouwers, scrittore fra i più importanti di lingua germanica, che con approccio antisentimentale eppure profondamente commovente scrive una lucida confessione in cui i ricordi di una infanzia sofferta si intrecciano a quelli della donna amata. E’ la notizia della morte della madre a innescare la catena di dolorosi ricordi nel protagonista-autore: l’internamento a tre anni nel campo di prigionia giapponese a Giacarta nel 1943, dove assiste alle violenze subite dalla madre e alla morte della nonna; il collegio a cui lo consegna la madre successivamente e che vivrà come un secondo imperdonabile internamento, via via fino ai fallimenti dei suoi rapporti con le donne, minati dalla sua fragilità emotiva. Poi c’è un regista molto noto in Europa, il belga Guy Cassiers – direttore della Toneelhuis di Anversa ma da noi più conosciuto per la tetralogia wagneriana alla Scala – che trasforma il testo in un lungo monologo e fa penetrare lo spettatore nei recessi di un’anima tormentata utilizzando drammaturgicamente la tecnologia. Una serie di videocamere a circuito chiuso riprendono l’attore in primissimo piano, moltiplicando dettagli e prospettive, ricreando un ambiente che penetra nell’incubo raccontato dall’attore. Amplificando poi fin anche il più flebile respiro dell’attore in scena, accresce l’intimità del racconto, vista dalla stampa francese come una confessione personale ad ogni spettatore in sala. Ma senza un grande attore come Dirk Roofthooft, a tutti gli effetti coautore dello spettacolo, cui presta la sua voce, le sue pause i suoi sussurri sgomenti, e che recita il monologo indifferentemente in olandese, francese, spagnola, inglese, tutto questo non esisterebbe.
Ha scrittoFranco Cordelli: “Ci si chiede come mai nessun editore italiano abbia tradotto un testo di simile potenza evocativa, di così struggente rievocazione di tanti capitoli dolorosi. … Ma non è stupefacente solo il romanzo. Lo sono anche la regia con il suo uso delle rosse luci, diffuse o a raggiera sul pavimento; e lo è l’interpretazione. Dirk Roofthooft è molto più di un semplice attore. Egli non recita, si limita a parlare, anzi a mormorare quasi, con quella sua roca, desolata voce, dicesse tutto tra sé e sé” (Corriere della Sera, 12 dicembre 2010).
Sarà Dirk Roofthooft a condurre il workshop su e con gli attori che verranno selezionati per Biennale College – Teatro: già interprete per Jan Fabre, Wim Vandekeybus, Peter Sellars, oltre che per Cassiers, Roofthooft cercherà di trasmettere ai partecipanti vari modi per lavorare con il materiale del testo e con il silenzio, il corpo, la voce.
IL TEATRO AL TEMPO DELLA CRISI
37 anni attore e danzatore, fondatore con Africa Navarro della compagnia El Local nel 2006, spazio dedicato all’incontro fra le arti, David Espinosa giunge per la prima volta in Italia con uno spettacolo singolare: Mi gran obra, che si potrebbe sottotitolare il teatro al tempo della crisi. C’è chi come Tolcachir se lo è fatto in casa con Timbre4 e chi, come David Espinosa, con una carriera di attore e poi di autore di propri spettacoli, ha risolto il problema con un capovolgimento di prospettiva. Non potendo godere di ricchi finanziamenti, cosa che non garantisce comunque l’esito artistico, Espinosa ha realizzato un teatro in miniatura, dove lo spettatore, che a questo punto sembra come Gulliver con i lillipuziani, entra (ovviamente in numero limitato – a Venezia saranno 20, ma con 2 repliche al giorno) e si trova di fronte ad un palcoscenico che è non più grande di un tavolino e dove è meglio osservare l’azione con il binocolo. Per quanto in scala ridotta, in questo teatro c’è davvero tutto: dai cambi di scena alle luci alla scenografia agli attori, interpreti di una storia improbabile. Tutto è in versione “maquette”, un modellino probabilmente in attesa di sviluppi futuri.
“Mi gran obra è quello che vorrei fare se avessi un budget illimitato, un grande teatro, 300 attori in scena, una banda, un gruppo rock, animali, macchine ed elicotteri”, tutte cose che in scena ci saranno davvero. Espinosa chiama ironicamente in causa l’Utopia di Tommaso Moro perché Mi gran obra è un’utopia vera e propria. “La precarietà e la mancanza di mezzi, spiega l’ideatore e regista della performance – ci ha sempre costretti a ingegnarci a trovare soluzioni, a fare di necessità virtù … e in tempi di così dura crisi è giunto il momento di affrontare il nostro progetto più ambizioso. Lo spettacolo nasce dall’idea di costruire uno spettacolo su larga scala, senza badare a spese e senza limitarsi nell’ingaggio degli artisti, ma con un particolare:la scala. Si pensa in grande ma si realizza in piccolo”. Una provocazione? Non solo. Con il modellino utilizzato per realizzare il suo sogno, Espinosa riflette anche sull’idea di rappresentazione, sulla relazione con lo spettatore, sulla decontestualizzazione degli oggetti reali attraverso la scenografia, sulla messa in discussione della nostra stessa idea di arte e di cultura.
Lo spettacolo sarà in scena dal 3 al 10 agosto a Ca’ Giustinian, sede della Biennale, con doppia replica (ore 12.00, 15.00).
INCONTRI RAVVICINATI
Pensando ad un pubblico sempre più consapevole, ad appassionati e curiosi che intendono approfondire le loro conoscenze, il mondo poetico di un regista, le passioni che lo ispirano ma anche il metodo che lo guida, il 42. Festival Internazionale del Teatro ha invitato gli artisti in programma con workshop e spettacoli a partecipare ad un ciclo di incontri con gli spettatori. E’ stato intenzionalmente scelto, per ognuno di loro, il giorno successivo al debutto sulla scena, proprio per dare modo al pubblico di avere un riscontro concreto sullo spettacolo visto.
Inaugurano questa serie di incontri il 4 agosto Wajdi Mouawad (ore 16.00) e Guy Cassiers (ore 17.00); il 5 agosto sarà la volta di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò dei Motus (ore 16.00), quindi Declan Donnellan con Nick Ormerod (ore 17.00); seguirà il 6 agosto Claudio Tolcachir (ore 17.00); il 7 agosto Jan Lauwers (ore 17.00); l’8 agosto Krystian Lupa (ore 17.00); il 9 agosto Angélica Liddell (ore 17.00); il 10 agosto Romeo Castellucci (ore 17.00). Il ciclo si concluderà l’11 agosto, ultimo giorno del Festival, con Gabriela Carrizo (ore 17.00) e Thomas Ostermeier (18.00).