Che la televisione non sia un teatro l’abbiamo ben capito in questi giorni infami di clausure ripetute in cui s’è visto davvero di tutto per poter far vivere “come se fosse” quell’universo prezioso e delicato che si chiama “spettacolo dal vivo”. Lasciando perdere i molti, e miserrimi, esperimenti di attori in crisi di astinenza e di identità affacciati da ogni dove alla ricerca di un linguaggio televisivo che ancora non si sa bene cosa sia se lo si paragona a quello, molto antico del teatro, vale la pena fermarsi un momento a osservare l’offerta del film-opera di Mario Martone per Rai3, che l’altra sera ha coniugato i linguaggi della musica, del teatro, del cinema, della televisione, portando il tutto, con qualche invenzione e qualche novità psicologica nella proposta di personaggi noti ed amati. Scrivo insomma de “La Traviata” firmata da Mario Martone in fedele infedeltà all’opera di Giuseppe Verdi e di Francesco Maria Piave. Venerata per interpretazioni mitiche di “Traviata” ne abbiamo viste molte ed ascoltate altrettante. Mettendo in fila protagoniste d’eccellenza come Maria Callas, Renata Tebaldi, Magda Olivero, Monserrat Caballè, fino ai giorni nostri con nuove interpreti e finalmente regie che dessero un senso a spasimi e fremiti pericolosamente stucchevoli e codificati, o regie d’artificiali ammodernamenti insopportabili alla musica di Verdi e peggio ancora alle parole con cui Piave documentò le miserabili convinzioni di una società che alle “escort” non dava spazio sociale o possibilità d’amore. Chi è allora Violetta e perché la amiamo tanto? Ognuno se la è adattata ascoltando e vedendo. Ognuno la ha condannata oppure assolta. Molti, quasi tutti, la hanno amata, chiedendosi magari come fosse giunta fino a noi l’immagine di una “donna perduta” tanto dolorosamente raffinata, tanto pericolosamente patinata, tanto convenzionalmente elegante in abiti e comportamenti. Ma al melodramma, ed a Giuseppe Verdi, tutto è sembrato concesso. Lasciando ora da parte il gioco, legittimo e perverso, del “mi piace/non mi piace” ho visto invece l’altra sera una Traviata diversa, e non soltanto perché finalmente, ed ancora una volta, lo spazio del palcoscenico dell’Opera di Roma non era, per l’uso dell’occhio dello spettatore televisivo, territorio altro, estraneo e separato in cui la telecamera s’insinua impietosa a mostrarci primi piani crudelissimi nello sforzo dell’acuto. Non soltanto perché il teatro, che ormai era territorio tutto della rappresentazione, poteva trasformarsi in immaginario percorso d’incontri ed il “dentro” si poteva scontrare addirittura con il “fuori”. Ma perché c’erano cantanti/attori che recitavano, e bene, condividendo evidentemente quel che il regista aveva loro proposto. C’era insomma una Violetta diversa da molte altre di bella voce. La Violetta di Lisette Oropesa, a cui Martone ha chiesto di essere una prostituta inelegante e con qualche ardita e naturale volgarità, piuttosto alla mano per nobili sconci e borghesi arricchiti, e quindi fragile davanti all’amore finalmente rivelatesi, foss’anche ad opera dell’insipido, ma appassionato Alfredo, baccalà scimunito cui si è piegato, e giustamente, Saimir Puirgu. Lei che non aveva mai provato la gioia “d’essere amata amando”, presa dal gioco di questo strano nuovo e vero amore, ne resta impigliata. E vittima però di quella carogna di Germont padre, il molto efficace Roberto Frontali che la piega, bigotto e resoluto, per ristabilire l’ordine, ma non l’armonia, familiare. Un milione di spettatori è un bel numero, un successo, una speranza per andare avanti. Perché l’opera lirica potrebbe essere, per un paio d’ore, sottratta all’ortodossia dei melomani, ed essere invece prova certo rischiosa di un oggi, ma anche offerta-ponte che consola della visione di un teatro deserto nelle nostre serate di solitudine. (giulio baffi)