“Che cosa sono le nuvole? ”, piccola perla pasoliniana di “Capriccio all’italiana” in cui le marionette, dopo aver fatto il loro lavoro in scena, si chiedono, distese nel baule, perché fanno ciò che fanno – è niente al confronto con la poesia pura, catturante, incantata e incantatrice della Marionettistica dei Fratelli Napoli.
Se esiste ancora una ragione per dire e concepire il termine “fatato” essa non può che avere a che fare con quell’universo magico e carnale, radicato in un tempo senza tempo e che, a dispetto di “disattenzioni” politiche e sensibilità pachidermiche, a morire non ci pensa nemmeno.
E non interrogano solo se stesse quelle marionette strabilianti e fantasmagoriche, alte quasi un metro e mezzo e di peso non inferiore ai 30 kg: i loro occhi bucano i tuoi mentre loro se ne rimangono immobili nel parco “fatato” del Museo Napoli a un sospiro
dal loro campo di battaglia, il Cineteatro Alliata, alla Vecchia Dogana. Se non l’avete ancora fatto, andate prestissimo e fate in modo, come scriveva Kavafis, che “la strada sia lunga, fertile in avventure ed esperienze”, dalla lancia di Argalia al titanico boccascena che nel 1931 invadeva il Teatro Bellini per la disfida tra pupari che vide vincitori i valorosi Napoli. E il dragone, l’aquila a tre teste, l’orrido Pulicane, mezzo uomo e mezzo cane (termine che oggi è passato a indicare chi ha un fiuto eccezionale; solo due
esemplari, l’altro è alla Casa Uccello) i fili di tiro e le casse ancora intatte, l’insostituibile “borsa dei preparativi”, la mitica bottiglietta di anilina per simulare il “vero” sangue in scena. E le tracce autografe dei “parraturi”, fogli color burro che i pupari custodivano con feroce gelosia portandone con sé solo una parte, “ ‘a sirata”, per paura che i rivali li sottraessero, come le “pirate version” dell’era Shakespeariana. L’occasione “benedetta” è stata la Santuzza a cui Alessandro e Fiorenzo Napoli dedicano “La passione di Agata”, fino a ieri al Teatro-Museo, spettacolo raffinato e dirompente (come l’eruzione dell’Etna, supremo e sublime miracolo di scenotecnica) con cui solo le prove delle nobili Marionette di Salisburgo sono in grado di competere.
E se le marionette sono un sogno dentro a un sogno, è un sogno realizzato, questo, per Alessandro Napoli, umanista e filologo, custode affinato della tradizione di famiglia. E’ stato lui a redigere il copione, insieme con Fiorenzo Napoli – capocomico riconosciuto, non senza il fratello Giuseppe, “maniaturi” mago di scenotecnica (impareggiabile nel momento dell’asportazione dei seni di Agata), il fratello Salvatore, la tetragona mamma Italia Chiesa, la moglie Agnese, i tre figli.
E nel testo, denso e misuratissimo, Alessandro coniuga felicemente memoria collettiva e memoria personale. “Le mie zie ci raccontavano la storia della Santa non risparmiando a noi bambini nessun dettaglio “gotico” – racconta dietro le quinte, uno spazio piccolissimo in cui grandissimo è il gioco di “manianti” e “parraturi” che si muovono a passo di volpe senza un solo cedimento di ritmo, dotando i
pupi di una cinesi dinamica, tutta contemporanea.
Gli “Atti latini” come fonte attendibile ma una variante deliziosa come una “minna di Sant’Agata”.
Cioè un prologo ed un epilogo, quasi a giustificare la rappresentazione che perciò si apre con i caratteri dell’Opera dei Pupi: Peppininu, Titta e Cammela Pagghiazzo.
Un po’ come gli attori all’ubriacone Sly nella “Bisbetica domata” (qui chi ha sense of humour è “chiù lisciu d’u corrimanu d’o Municipio di Catania”), si preparano ad assistere alla Festa di Agata, che “u quattru è d’o populu, u cinqu d’a Chiesa”.