CATANIA. Può accadere, all.attore di carne, di cedere alle intemperie dell.emozione.
All’attore di legno, mai. Il pupo è tetragono, tagliente, tonante. L’attore-pupo è definitivo come il suo odio e il suo amore, vizi e virtù. Il pupo è assoluto nel suo vivere o morire, nel suo cadere o colpire. Per questo, della violenza dell’uomo con l’uomo il pupo fa un manifesto inoppugnabile, un vangelo senza religione; ai cattivi sentimenti, infatti, è il legno, più della carne, a dare una realizzazione vera e incapace di piegarsi come le rotule dei pupi manovrate dagli «opranti». Ed è in quel suo essere attore che non apre bocca e non sbatte le ciglia, è in quella sua fissità per gli eventi e non per i sentimenti che sta il primato del Pupo sull’Uomo: una fiaba bella da far paura che i Fratelli Napoli raccontano da sempre alla gente di teatro a teatro. L’ultimo, terribile racconto della gloriosa Marionettistica si chiama «Macbeth» o meglio «La tragedia di Macbeth» come da autentici «cuntisti» l’hanno ribattezzata due «pezzi» della famiglia – Fiorenzo, anima, corpo e voce della Compagnia, figlio e successore in carica di Natale e di Italia Chiesa Napoli, quattro volte ventenne e ancora al timone – che, con il cugino Alessandro Napoli, filologo da lunga pezza, ne ha curato «riduzione e adattamento per pupi catanesi» per la regia di Fiorenzo Napoli, al Teatro del Canovaccio ancora oggi alle 21 e domani alle 18 e 21.
Del Bardo, dunque, la «tragedia scozzese» ricompattata in ritmi serratissimi (un’ora la prima parte, 50 minuti la seconda) ed altrettanta devozione drammaturgica, a cominciare dalle «witches», le tre streghe terragne ma non terrestri che, se per Mallarmé dovevano apparire in scena come per errore del siparista, qui sono le prime a piantare chiodi sul palcoscenico.
Orride e impalpabili, i pupi-streghe hanno mani enormi e corpi aerei fasciati da stracci bellissimi (i copiosi costumi rigorosamente d’epoca di Agnese Torrisi Napoli: Lady in azzurro e poi in fosco rosso porpora, i sicari in verde marcio, Duncan sovranamente impellicciato come più tardi il suo assassino, Macbeth) e sono voci tra voci (gli attori Eliana Esposito,Giuseppe Colaciura, Salvo Musumeci e Salvo Brocato con Fiorenzo, Gaetano e Marco Napoli e sopra tutte, l’inconfondibile voce-culto di Italia Napoli). Nelle scene di Giuseppe Napoli che governa il ponte di animazione (Salvatore Napoli a luci e fonica) è un tripudio di manieri e di meandri pietrosi, primo tra tutti il sinistro, coloratissimo banchetto con il candido fantasma di Banquo issato da una sorta di «hell» da teatro elisabettiano e poi sospeso e risucchiato dal «paradiso».
Ma il governo delle «masse» (a volte, otto o dieci pupi in scena) ne ha del miracoloso.
Animati da Alessandro, Dario, Davide e Marco Napoli e Simone Vasta, i pupi sono gli stessi di sempre eppure diversi,c’è in loro una contaminazione cinetica: da un canto, i rituali passi sonori come «zapateados», dall.altro, però, dei guizzi «moderni» nei volti di legno, scatti inusuali e «umani» tra chiome che vibrano con la battuta e braccia che tremano prima di dare il colpo di grazia.
Che – per la platea, tutta – è il duello finale, rito e mito obbligato per Macduff come per Orlando, una catarsi stavolta carnale e sanguigna come sono – SEMPRE – gli applausi urlanti della fine.