Festival Opera Prima 2021

Diciassettesima edizione sotto il segno dichiarato, anche iconograficamente, della carta delle “Stelle”, la n. 17 nella sequenza dei tarocchi, a simboleggiare la speranza e, anche più della speranza, una rinascita nell’attesa di una nuova alba. Questa edizione, a Rovigo dal 5 al 12 settembre, infatti riesce pienamente a recuperare e dispiegare le sue vocazioni profonde, intuite, suggerite e inseguite con passione dal Teatro del Lemming che lo promuove e dal suo direttore artistico Massimo Munaro, oltre le contingenze e gettando per così dire un ponte che, ben radicato come sempre nel nostro presente, riassume lo slancio consueto e fecondo tra passato e futuro. La prima vocazione che, dichiarata già nel suo nome, viene confermata è l’attenzione ai giovani, agli under 30 e alle loro proposte e suggestioni che rielaborano i fermenti spesso lasciati a maturare nel terreno ricco, ma anche messo a rischio da tempi di mutamenti e aridità sociali, del nostro movimento teatrale. Un mettersi quasi in esposizione di

fronte a queste tensioni al mutamento, affinchè non si perda in esso il flusso della tradizione più autentica, e che quest’anno è confermato anche dalla presenza numerosa di compagnie europee. Scelte in parte su suggerimento di “alcuni maestri della scena”, in parte da un Bando di invito che ha raccolto oltre 500 adesioni, queste proposte dimostrano lo sguardo non solo attento e profondo ma soprattutto generoso che da sempre contraddistingue i promotori del Festival.
La seconda vocazione, che trae la sua linfa dall’idea di teatro dello spettatore che il Lemming ha intuito e poi sviluppato nelle sue creazioni, è quella della apertura alla città che lo ospita, una apertura non nel segno del consueto ma spesso in quello stimolante della provocazione estetica ed intellettuale che la percorre sotteranea e poi accade anche nei suoi luoghi più frequentati, mai imponendo ma sempre  invitando ad insieme elaborare e così insieme proporre. Una città ed una comunità invitata a non abituarsi ma ad andare sempre un poco oltre, per sé e per gli altri.
Infine è stata una occasione per ritrovare e di nuovo apprezzare, forse più che altrove, un atteggiamento attento ai mutamenti non solo artistici, ma attraverso di questi alle ferite che la storia, la Società ed il prevalere su di essa della economia, lascia nel tessuto delle relazioni di una umanità che si sfrangia perdendo i suoi riferimenti. Con speranza però, la speranza che l’irriducibilità sia ancora una qualità dell’anima umana, oltre ogni merce. In questo anche la nuova attenzione all’infanzia, che ha contraddistinto alcun momenti della rassegna di quest’anno, è il segno di quella speranza e confidenza di sé.
Ora una breve rassegna degli spettacoli visti in questa occasione:

EL RASTRE D’AQUELLA NIT
L’identità umana raccontata attraverso gli oggetti in cui la sua natura quasi approda e la sua attività si acquieta per un po’, lasciando traccia di sé. Transitiamo in essi e nei luoghi che attorno a noi si manifestano proprio grazie al nostro esserci, lì e non altrove. Sorta di drammaturgia contagiata dal teatro di figura tenta di leggerci in quella traccia, sentiero sempre interrotto. Sintesi di una relazione, anzi di una doppia relazione di coppia, costruisce l’immagine dell’uomo come specchio di sé, che l’utilizzo di video in scena enfatizza. Spettacolo in lingua suggestivo ma purtroppo ostacolato da alcuni problemi tecnici dovuti a sottotitoli mancanti che non ne hanno consentito la piena comprensione. In prima nazionale.
Regia Jacobo Pallarés, drammaturgia Maribel Bayona, Juan Andrés González e Jacobo Pallarés,
con Juan Andrés González, Alejandra Mandli, Cristina Granados, Andreas Eilertsen, musiche Juan Andrés González, Andreas Eilertse, scenografia e oggetti scenici Los reyes del mambo,
lighting design Mireia Parreño, traduzione e sottotitoli Michele Bacchiega.

MONDO
La ricerca della forma della vita, anzi la forma della vita come ricerca che si articola nello spazio creando per ciascuno di noi una coreografia singolare e non sovrapponibile. L’immagine sfuggente di sé ed il respiro che accompagna il suo moto ed il suo mutare continuo. L’identità dunque e l’esserci come moto continuo. Siamo i viandanti di un universo che mai potremo conoscere ma che dobbiamo amare e a cui dobbiamo resistere per lasciare una traccia. Non a caso lo spettacolo si apre citando il passaggio 56 dell’antico libro dei Ching, “Il viandante” appunto. Coreografia e performance costruiscono così una drammaturgia che, in un certo senso, crea la sua parola, la parola che dionisiacamente si incarna nel transitare in scena dell’uomo che danza. In fondo creare un mondo, il compito che ci aspetta al momento della nascita. Uno spettacolo ricco di suggestioni che quasi si accendono in ognuna di quelle stesse parole, in cui si fondono linguaggi e riferimenti filosofici che la rendono vicina ad una indagine metafisica, nel cerchio del nicciano eterno ritorno. Uno spettacolo in continuo farsi da un accadere all’altro.
Idea e creazione Gennaro Lauro (artista associato del Gruppo Sosta Palmizi), luci Gaetano Corriere, produzione Lauro/Cie Meta – coproduzione Associazione Sosta Palmizi, partners KommTanz/Abbondanza Bertoni 2019, FabbricAltra – Schio.

DON’T, KISS
Coreografia di contatto, un pas de deux eterodosso costruito intorno a un bacio che non può essere interrotto, ad un legame metamorfico tra due esseri umani che porta con sé, nell’amore e nella relazione, la libertà ma anche la dipendenza, la felicità e il rischio, l’essere e lo scomparire. Un tema universale declinato in una relazione omosessuale proprio a ricordarci che non è il sesso degli amanti a determinare il sentimento che li lega, vivendo questo in una sua autonomia cui possiamo attingere o che possiamo rifiutare. In questo spettacolo il tema dell’amore e della dipendenza si intreccia così con quello del genere e della scelta, dei limiti dunque e della liberazione da quegli stessi limiti. Uno spettacolo tecnicamente complesso, talora ‘forte’, ma esteticamente efficace il cui impatto è risultato moltiplicato dalla scelta di rappresentarlo vicino alla piazza principale della città, aperto e alla vista di ciascuno dei suoi frequentatori. Un invito a pensare, cosa oggi rara, e non una provocazione, e anche quando così è sembrata, agli occhi e nelle parole di alcuni che hanno reagito con violenza e volgarità verbale, è comunque stata, a mio parere, assai utile. Utile per tentare di prendere coscienza di ciò che accade. Bravi i due interpreti, tra cui il giovane coreografo italiano che oggi vive e lavora a Copenhagen.
Coreografia Fabio Liberti, musica Per-Henrik Mäenpää, danzatori Jernej Bizjak, Fabio Liberti, produzione MUOVI-FabioLiberti, Institute 0.1

NUMAX-FAGOR-PLUS
Dai diritti umani e civili a quelli, purtoppo oggi meno alla ribalta di ieri, diritti sociali ed economici, ma non un teatro-documento. Lo spettacolo si ispira alla storia contrapposta, nel tempo e nello spazio, e anche visivamente nei due schermi che occupano la scena, delle due fabbriche spagnole del titolo, la catalana Numax (1979) e la basca Fagor (2013). Storie di lotte e di sconfitte distanti e parallele scritte nei corpi dei loro lavoratori. Sugli schermi scorrono immagini di quelle lotte, ma i protagonisti sono le persone presenti ora, di fronte a quegli stessi schermi, nella platea. Siamo noi, invitati se vogliamo a leggere i brani della drammaturgia che quelle storie hanno saputo ispirare e disegnare. Ogni spettatore può scegliere quale brano, sovrapponendo poi la propria lettura con le parole dei diretti protagonisti che fluiscono sugli schermi. Ne risulta favorita una più profonda identificazione tra noi e loro, così da riportare in qualche modo alla luce qualcosa che  sembriamo aver smesso di percepire di quella loro lotta e delle sue motivazioni dirette ed indirette. Un effetto straniante che, proprio attraverso la lontananza, cerca di richiamare all’oggi il senso profondo, umano e sociale, che di quelle storie si è perso nel tempo, insieme alla coscienza di classe, quell’identità profonda che può dare un senso più chiaro e condiviso all’agire sul palco della vita e che sembriamo aver dimenticato. Una sorta di “funerale della coscienza di classe”, dunque, ma capace forse di ricostruire un percorso nuovo che a quella coscienza sappia ridare il peso necessario. In fondo i funerali servono proprio per salutare chi si è perduto ma anche per conservare e riprodurre l’essenza e il senso della sua storia. Un spettacolo che cerca nuovi modi di comunicare e far partecipe lo spettatore, linguisticamente articolato in maniera efficace, esteticamente, ma non solo, di impatto. Necessario anche, in un momento storico in cui il lavoro sembra somigliare sempre di più alla schiavitù.
Ideazione e regia Roger Bernat, in scena Laura Valli, ispirato al film Numax, presenta (1980) di Joaquim Jordà, drammaturgia Roberto Fratini, co-produzione Elèctrica Produccions, KunstenFestivalDesArts (Bruxelles) e Festival Grec (Barcellona).

ONIRICA
Un tentativo di avvicinarsi ed entrare nel più intimo dei mondi umani, quello del sogno, dimenticando Sigmund Freud, anzi di penetrare in quella sottile frazione del tempo che sta tra la veglia e il sonno, che quando accade non ha dimensione né di spazio né di tempo. Il lavoro si ispira , come dichiarato dalla stessa regista, a studi sullo specifico argomento, su quello cioè che viene definita immagine ipnagogica. È in un certo senso il tentativo di rappresentare quella realtà non dal punto di vista del contenuto ma da quello del suo linguaggio. Lo fa sfruttando le dimensioni e le possibilità che le più moderne tecnologie visive consentono, così da translitterare immediatamente in immagine, mi si perdoni il paradosso tautologico, l’immaginazione, la realtà che improvvisamente accade in quell’istante in cui le dimensioni consuete, del tempo e dello spazio appunto, si stravolgono diventando altro. Una telecamera in scena infatti rimanda sullo schermo situazioni che lì accadono e che hanno l’apparenza del reale ma non la sua consistenza e sostanza, quasi un inseguimento tra movimento scenico, figurativo e onirico come certi film surrealisti alla Artaud (ricordo La Coquille et le Clergyman di Germaine Dulac), e parola drammaturgica che però sembra faticare un po’ ad organizzare ciò che è talmente ‘puntuale’ da incorpare il suo stesso significato e sfuggire ad ogni motivazione o esito. Una modalità che rimanda a Jean Paul Sarte per il quale la visione ipnagogica, quella cioè che lo spettacolo vuole elaborare, non ha scarto tra visione e comprensione e questo le conferisce la sua natura fantastica. “Infatti”, scrive in Immagine e coscienza, “l’oggetto non è posto come in via di apparire né come apparso….Si dà come un’evidenza brusca e scompare allo stesso modo.” Da qui credo la difficoltà ad organizzare verbalmente un tale processo. Resta uno spettacolo interessante, al di là del suo essere ancora uno studio che, nella contingenza, ha dovuto anche subire aggiustamenti per eventi non previsti. Uno studio, peraltro, in senso proprio, cioè un tentativo da esperire man mano e che già dimostra le qualità della regista, giovane ma ricca di esperienze.
Regia Giulia Odetto, dramaturg Antonio Careddu, con Camille Guichard, Andrea Triaca, Camilla Soave, Beatrice Vecchione, assistente alla creazione Valentina Spaletta Tavella, ambientazione sonora Lorenzo Abattoir, progetto scenografico Gregorio Zurla, con il sostegno di Tangram Teatro Torino e Sardegna Teatro. Progetto finalista al College Registi under 30 della Biennale di Venezia 2020.

Ormai cifra specifica di questo appuntamento, al mattino degli ultimi quattro giorni un Prefestival di incontri e conversazioni con gli artisti che nel giorno precedente si erano esibiti. Un appuntamento mai rituale, capace di approfondimenti da cui gli artisti  possono trarre giovamento per la loro attività, presente e futura. Stesso giovamento viene tratto dal pubblico che può interagire direttamente con loro. Questo appuntamento dà una qualità in più ad un evento ricco di idee e di suggestioni.

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