Della feroce repressione che continua ad affiggere la Bielorussia, la stampa ha smesso di occuparsi da diversi mesi. La nostra crisi del governo, le elezioni americane, la pandemia; e poi le tragedie che stanno funestando la Siria e il Myanmar hanno giustamente riempito la scena mediatica. Non tocca a me, meno che meno in questa sede, colmare quella lacuna di informazione, ma forse ci riguardano da vicino le vicende di alcune importanti istituzioni teatrali bielorusse, riflesso e compendio di ciò che sta succedendo in tutto il paese.
Sappiamo che, dopo le elezioni di agosto, per protestare contro lo scandalo delle elezioni truccate sono scesi in piazza lavoratori e studenti; hanno sfilato le donne in bianco, suscitando le violente reazioni delle forze dell’ordine, oltre che di squadre di persone senza distintivi istituzionali, a volto coperto.
A Minsk, uno dei teatri più prestigiosi del paese, apprezzato anche per l’attività di ricerca e di innovazione, è intitolato da tempo a Janka Kupala, un poeta e scrittore bielorusso, a suo tempo promotore del recupero del patrimonio letterario e linguistico nazionale, morto nel 1942 precipitando da un palazzo moscovita, in circostanze mai chiarite.
Lo scorso 12 agosto, in concomitanza con le proteste di piazza, il regista Nikolaj Pinigin e i dipendenti del teatro Kupala avevano registrato un messaggio video per chiedere la cessazione delle violenze perpetrate sui manifestanti; il giorno successivo, reclamavano formalmente un nuovo conteggio dei voti, alla presenza di osservatori indipendenti. Il 16 agosto gli attori e il direttore generale del teatro, Pavel Latuško, firmavano una lettera aperta che chiedeva le immediate dimissioni di chi aveva impartito “ordini criminali”, e l’imputazione di tutti i funzionari colpevoli o coinvolti in tali reati. Il giorno successivo Pavel Latuško veniva licenziato in tronco; tuttavia la sera stessa, sulla sede del teatro sventolava la tradizionale bandiera bielorussa bianca e rossa, da anni messa al bando dal regime.
Giova ricordare che Latuško, costretto a lasciare il paese e riparare a Varsavia, come altri esponenti dell’opposizione, è un personaggio di notevole rilievo: già ambasciatore e ministro della cultura, era considerato uno dei più importanti punti di riferimento dell’opposizione. Per solidarietà, la quasi totalità dei dipendenti del teatro si erano licenziati: 58 persone, di cui 36 attori. Della originale compagnia, erano rimasti solo in dieci.
Le autorità avevano cercato di correre ai ripari, nominando successivamente come direttori due personaggi di facciata dell’apparato statale: prima, ad interim, Valerij Gromada, viceministro della cultura, quindi un funzionario, Aleksandr Šestakov. Costoro avevano colmato i vuoti scritturando nuovi attori non necessariamente in base alla professionalità, ma sicuramente allineati e devoti al potere, e reclutando anche studenti delle scuole di teatro. Ciò, come si legge nei comunicati ufficiali, in omaggio alla valorizzazione dell’energia creativa giovanile.
Pur tuttavia, il teatro era rimasto inattivo per sei mesi, ufficialmente per la pandemia, e solo a fine febbraio è stato riaperto. Ma ben poco era riconoscibile della sua prestigiosa tradizione artistica: uno degli spettacoli cult di Kupala, Paŭlinka, una satira densa di umori corrosivi, nel nuovo allestimento è stato ridotto a una noiosa commediolaedificante. All’inaugurazione della nuova stagione aveva partecipato Lukašėnka, che nei precedenti ventisei anni di presidenza aveva degnato quel teatro forse di quatto o cinque visite.
Formalmente, tutto è ricominciato come prima. Ma basta dare un’occhiata al programma di marzo, dove per tutto il mese compaiono solo repliche di Paŭlinka e di un dramma di Aljaksej Dudaraŭ, La sera, per cogliere la differenza. In un solo mese di una passata stagione, erano andati in scena nove spettacoli: vari testi tratti della letteratura bielorussa, e poi Il gabbiano, Antigone, Don Giovanni, una serata di musica barocca.
Vicende non dissimili hanno interessato anche altri teatri nelle maggiori città della Bielorussia.
In ottobre anche i registi e gli attori del teatro provinciale di Grodno avevano sostenuto le proteste contro il regime, aderendo a uno sciopero di evidente valenza politica (una forma illegale in Bielorussia), ed erano stati licenziati.
Così a Mogilëv Olga Semčenko, dramaturg del teatro drammatico provinciale di Mogilev, più volte arrestata per manifestazione non autorizzata (il che significa, ad esempio, esporre sul balcone i colori che richiamano la bandiera tradizionale), è stata licenziata, assieme ad Andrej Novikov, da vent’anni direttore del teatro, che si era opposto al provvedimento.
Ma gli attori usciti del teatro Kupala non sono rimasti inerti. Rifondatisi come Libero Teatro Kupalaǔcy, hanno riadattato la drammaturgia del loro repertorio, per poterlo proporre clandestinamente nei cortili, nei parchi cittadini, spesso interrotti dall’intervento della polizia.
Sono anche riusciti a mettere in scena uno dei loro spettacoli simbolo, Tutėjšyja (Тутэйшыя), di Janka Kupala: un titolo che si potrebbe tradurre “Quelli che stanno dalla nostra parte”, in un’unica serata, trasmessa in streaming e poi sospesa. Ma non demordono.
Aleksej Strel’nikov, un giovane, coraggioso collega espulso dall’Accademia statale bielorussa delle arti per le sue prese di posizione contro il regime, in un incontro diffuso da Euroradio (un’emittente bielorussa indipendente), ricorda che è proprio dal teatro che, storicamente, può nascere la spinta alla lotta. A supporto di ciò riporta l’episodio – forse leggendario ma suggestivo – di una rappresentazione di Fuenteovejuna di Lope di Vega durante una qualche rivoluzione, che suscitò nel pubblico una tale indignazione contro il potere, da indurlo a correre immediatamente sulle barricate, e combattere. Poi cita il teatro di Vsevolod Mejerchol’d, connaturato alla Rivoluzione di Ottobre; la Rivoluzione di velluto in Cecoslovacchia, guidata dal drammaturgo Václav Havel; le campagne per i diritti civili del Belarus Free Theatre, in clandestinità da sedici anni; fino alle attuali iniziative dei Kupalaǔcy.
Se ancora qualcuno di noi non ne era al corrente ora sa che, in un paese che dista non più di duemila chilometri, c’è chi sta combattendo anche per la sopravvivenza del teatro, e per questo rischia l’arresto e la galera.
Sarebbe bello se riuscissimo a far sentire loro la nostra solidarietà, a sostenerli nella loro lotta per la libertà della cultura: un compito che è di tutti noi.