Giusto un anno fa il mondo dello spettacolo si fermò. 365 giorni sono infatti trascorsi da quando alle compagnie teatrali italiane fu comunicato che la loro stagione era sospesa. Ai teatri fu comunicato che dovevano chiudere le porte, e di conseguenza che tutti coloro che stavano lavorando sopra, ma anche sotto, avanti e dietro il palcoscenico potevano, anzi dovevano, rimanere a casa, causa pandemia. Anche per la “industria dello spettacolo” iniziava così la grande crisi. Solo che la loro crisi, a differenza di quella di tante altre “fabbriche”, cioè soggetti di produzione, di lavoro e di offerta di un qualche prodotto di cui la comunità avverte la necessità, non ha questo riconoscimento. Insomma in quest’anno di grande vuoto non si è nemmeno avviata quella trasformazione nel rapporto che lega chi consuma spettacolo con chi lo costruisce, dandogli una qualche idea di valore economico semplicemente riconoscibile in un qualche gradino della scala sociale. Per qualcuno, attrici, attori ed altri soggetti è stata istituita quella mancia, da molti gradita, chiamata “ristoro”. Molti altri, detti “invisibili”, debbono accontentarsi uno sguardo di compatimento. Di progetti che creino almeno i presupposti di un cambiamento radicale del riconoscimento e dell’uso sociale del lavoro nell’universo dello spettacolo, non ne abbiamo sentito discutere o almeno parlare. Il Ministro competente che continua a vedere attrici ed attori come beni equiparabili alla Venere di Milo o ad un reperto uscito fuori dalla lava di un’eruzione, ci ha annunciato così che, oltre a vedere il meraviglioso carro di bronzo che abilissimi archeologi han tirato fuori dal sonno disperato, potremo vedere anche gli attori. Da quando? Ma da subito. Giusto per rispondere ai manifestanti che davanti ai teatri chiedono qualcosa di più delle “brioches” di rivoluzionaria memoria. A partire da sabato 27 marzo, giornata dedicata al TEATRO istituita nel lontanissimo 1962 dall’Istituto Internazionale del Teatro “a sostegno delle arti di scena”. Si è scelto insomma questo giorno simbolico per dichiarare il fallimento (o l’assenza) di una politica per lo spettacolo che vada oltre la fotografia dell’esistente, l’elargizione delle regalie di sussistenza, la cura zoppa degli edifici, la tutela miope dei disattenti percorsi della gestione delle economie che tiene l’Italia, prima per patrimonio, molto in basso invece nell’elenco delle nazioni che investono nello spettacolo dal vivo riconoscendolo bene primo, veicolo di pensiero e di crescita, espressione di lavoro e cultura. Necessità insomma e non soltanto riempitivo del tempo libero. E se invece si fosse scelto questo giorno che in Italia da sessant’anni inganna attori ed attrici, drammaturghi, registi, ballerine, musicisti, cantanti, scenografi, costumisti, elettricisti, fonici, sarte, amministratori, direttori di teatro, di scena e di sala, trasportatori, fotografi, truccatori, costruttori, assistenti, service, addetti alla programmazione, uffici stampa, segreterie, vigli del fuoco, maschere e mascherine, addetti alle pulizie, manutentori, custodi e altro ancora dichiarandoli “necessari” e facendoli contemporaneamente sentire emarginati e superflui agli occhi di chi ne disegna il presente ed il futuro, per dire loro qualcosa di “nuovo”? Se insomma in quest’anno di “tolleranza” qualcuno al fianco del Ministro competente avesse lavorato per non farli sentire come fastidiose presenze incapaci di divertire, forse in questa giornata non l’apertura nel vuoto si poteva annunciare, ma qualche norma innovativa atta a creare una qualche prospettiva di cambiamento nell’assetto dell’universo spettacolo, legandolo magari alle necessità vere di una società che continua invece a vederlo lontano e per pochi, ed a vedere distante chi vi lavora con infinita fatica. (giulio baffi)