STARA ZAGORA – Dalle grandi vetrate del foyer del Teatro dell’Opera sono evidenti i segni tangibili del passaggio dell’Impero Romano. Una grande strada, lunga alcune centinaia di metri, con colonne spezzate ai lati ed incisioni e tavole ai suoi lati fa da cornice chiudendo perfettamente la visuale tra Teatro e il Museo. Qui i giovani si ritrovano. Al tramonto l’installazione di fili colorati tesi tra palazzi moderni e antichità, quasi un arcobaleno contemporaneo, illuminante nella sua semplicità, fanno bella mostra di sé. Si passa sotto un ponte e si arriva a quello che era l’anfiteatro e del quale, adesso, sono rimaste qualche colonna e un evidente semicerchio a ricordarne l’uso quando questo luogo si chiamava Augusta Traiana. Nel cuore della Bulgaria, a metà strada tra la capitale Sofia, che raccoglie una buona fetta dei suoi abitanti, ed il Mar Nero, nuova meta per i turisti. Stara Zagora significa “città vecchia dietro la montagna”, infatti a pochi chilometri sorge anche una Nova Zagora. Da undici edizioni qui va in scena l’importante e ben organizzato “Pierrot Festival”, puppets e teatro di figura dove, con colleghi belgi e bulgari, facevo parte della giuria internazionale. Tre i luoghi sui quali si apriva il festival: il Teatro dell’Opera, lo State Puppet e il Drama Theatre. Sugli oltre venti spettacoli (provenienti da Italia, con la compagnia La Capra Ballerina di Viterbo, Spagna, Giappone, Stati Uniti, Polonia, Ungheria, Serbia, e ovviamente Bulgaria) visti e osservati nella settimana festivaliera (23-30 settembre) ne abbiamo scelti sette (alcuni in concorso, altri fuori dalla competizione) veramente di ottima fattura, scelti accuratamente dal direttore Darin Petkov. Parleremo di “Error 404” dello spagnolo Wagner Gallo (compagnia Angeles de Trapo), di “Circle of Life” dei bulgari della scuola Natfa Kr Sarafov di Sofia, di “Nose” da Gogol dei bulgari Theatre 199 (vincitore dei premi per “Musica”, “Miglior Attore” e “Miglior Attrice”), di “The Last Man”, tratto da “1984” di Orwell, a cura dei bulgari dello State Puppet Theatre (gli organizzatori della rassegna), di “On the wolf’s trail” dei serbi di Novi Sad Youth Theater (vincitore dei premi per “Stage Design”, “Regia” e il “Gran Prix”), di “Chnorologist” dei bulgari di Vidin, di “Hamlet” del polacco Walny-Teatr. Spettacoli che starebbero benissimo in qualsiasi teatro italiano: eccezionali, catartici, folgoranti, diversi, eccitanti, favolosi. I teatri pieni e stracolmi anche il sabato e la domenica mattina.
Potremmo cominciare con “Error 404” di questo giovane manipolatore spagnolo che ha immerso il suo puppet nel pieno della vita quotidiana dei ragazzi di oggi: la virtualità, il computer, lo smart phone e tutto quel mondo di notifiche che porta lontano i ragazzi annientando la loro attenzione e il loro desiderio per la vita vera, reale. Una piece con una forte connotazione sociale sviluppata su due piani: la cameretta del ragazzo, incappucciato come il performer alle sue spalle) e un video di fianco dove poter zoomare sui particolari o fare un focus sui sogni come sulle fasi antecedenti a quelle mostrate dal vivo. La camera del ragazzo sembra un laboratorio informatico con bottoni, pulsanti e macchinerie varie (anche un drone) e il giovane è chiuso, volontariamente autorecluso come gli hikikomori giapponesi, nella sua camera fatta di giochi elettronici, di mi piace da mettere, di like da profondere, di commenti da lasciare sotto post inutili. Nel video il momento dell’incidente con un’auto proprio perché, mentre era sul suo skate, guardava il telefono e non la strada. Una piece intelligente e ironica, profonda e che fa riflettere. Il puppet si fa selfie in continuazione ed è talmente concentrato sui suoi schermi che si è dimenticato di dare da mangiare al cane da chissà quanto tempo che questo ormai è uno scheletro. Nel suo disagio esistenziale tutto ha una soluzione telematica per risolvere i problemi: il cane viene sostituito da un robot metallico abbaiante, il cibo può essere ordinato: unici contatti fugaci sono con i fattorini di Amazon. Ma le soluzioni alla vita non si trovano su google. La sua vita si svolge sul piccolo divano e la realtà si miscela con la fantasia in un osmosi ormai impossibile da scindere. Ci ha ricordato i ragazzi disadattati di Trainspotting. Il drone è il suo angelo custode, la sua mamma che gli rimbocca le coperte. L’ironia è l’altra faccia della disperazione. Prima aveva una vita, adesso la tecnologia gliel’ha portata via, come una droga. Avrebbe certamente meritato un riconoscimento.
Anche se i ragazzi, una ventina, di “Circle of Life”, sono ancora giovanissimi studenti di una scuola hanno fatto davvero un ottimo lavoro creando, attorno al tema dell’esistenza, a tratti naturalistici altri surreali, una serie di scene brillanti, esplosive, dirompenti per freschezza e acume, generosità e scintilla. Dentro un mondo primordiale, ma potrebbe essere post apocalittico (il circolo della vita) in mezzo alla spazzatura ed ai rifiuti, tema caldo in tempi di Greta, si aggira un mostro tipo Blob “il fluido che uccide” che tutto fagocita. Ormai questi esseri si cibano soltanto di sporco, l’unica cosa rimasta, sembra, sul pianeta Terra. Sono esseri a metà tra pinguini e suore, yeti e Minion, nani di Biancaneve e Puffi che lottano schiaffeggiando l’aria come lontre. Un vento da Apocalypse Now sconvolge ogni quadro e gli attori inframezzano le scene con cornici che ne illuminano soltanto i volti, come arte in movimento di un qualcosa che non esiste più. Siamo nel dark più profondo, nel buco nero dell’infinito, in mezzo alla Terra di sotto di Stranger Things e tutto si colora di thriller patafisico e si tinge di horror metafisico con le clessidre con la sabbia (le ceneri dell’uomo) che scorre e le mitragliatrici a sottolineare l’autodistruzione della specie umana. Molti uomini adesso sono accalcati dentro a delle gabbie, animaleschi e primitivi dentro un recinto labirintico che cambia forma e foggia ma che una volta aperto lascia i primati senza un’alternativa, senza un posto dove fuggire richiudendosi tra le più consolatorie e conosciute sbarre. Bellissima e intensa la scena con le vestali che, in un rito ancestrale, dialogano e lottano, danzano e guerreggiano, soltanto con l’uso e la forza dei capelli. Ecco il gioco della sedia, tanto ludico quanto qui brutale: chi la possiede ha il potere, chi non la ha la vuole conquistare ad ogni costo, la ruba, la sottrae. I tradimenti tra due coppie lasciano il posto agli emoticon e successivamente alla scena in metro prima di arrivare alla Guerra fino alle persone che vivono nei loculi nelle megalopoli orientali per ritornare all’inizio con i cassonetti, suonati come gli Stomp, che adesso sono casa ora macchine in coda. Grande tecnica e tenacia, precisione e stupore.
Gogol come non lo avete mai visto. Il kafkiano “The Nose”, giustamente premiato con tre riconoscimenti, ci ha portato nel castello della burocrazia e dell’abuso di potere degli uffici sovietici dove se ti mancava il naso (il fiuto per gli affari e per chi dover ungere al momento giusto) non riuscivi ad uscire dal pantano di timbri e carte bollate, visti e certificazioni inutili. In un mondo di nasoni (giganteschi, da elefanti, di ogni foggia e misura: splendidi i costumi e le maschere) se una mattina ti svegli senza naso è un grande e grave problema. C’è chi scrive con il naso, c’è chi mangia con il naso, c’è chi ci beve e chi ci fuma, nasi allungabili, elasticizzati, chi ha un sasso al posto del naso, chi ci si può suicidare con il proprio, nasi per apporre marchi o vidimare documenti. I nasi comunque li tengono bloccati lì senza dargli la possibilità di spiccare il volo, senza un’occasione di felicità. Assoluti i due interpreti per capacità sceniche, scambi, incontri, amalgama: fanciullesco e universale, essenziale e iperbolico.
Originalissimo e geniale l’“Hamlet” polacco di Adam Walny. Già perché di Amleto ne abbiamo visti di ogni colore ma vedere un telaio di metallo dove all’interno, come fosse un armadio o il castello di Elsinor o la mente del Principe di Danimarca, stavano cinque teche, come fossimo in un museo, con dentro i personaggi principali (quasi pupi siciliani) della tragedia shakespeariana (Claudio e Gertrude insieme, Ofelia, Polonio, Laerte, Rosencrantz) sott’acqua, annegati (terreno consono e naturale soltanto per l’amata del Principe), come sottaceti o sottolio. L’attore, con faccia bianca e collare elisabettiano, manovra un Amleto-puppet, un altro sé, l’unica marionetta fuori dall’acqua, come se fosse l’unico sopravvissuto. Le valige piene d’acqua sono spostate, con fatica perché pesanti, dall’attore che le fa scorrere su delle ruote con grandi abilità e fluidità e quando muove e dà voce alle varie marionette chiamandole in causa, queste boccheggiano e sembrano vive perché dalle loro fauci provengono ed escono bolle d’ossigeno come se fossero umane. Il dettaglio della luce che ferisce l’acqua mostrandoci un colore rosso sangue, vermiglio tragedia, porpora omicidio, è denso e scintillante. Ma è tutto lo spettacolo un continuo susseguirsi di scoperte e meraviglia come ad esempio il parallelismo e il paragone tra i personaggi e i pesci, e i pesci, si sa, fuori dall’acqua sono morti. Questi pesci, che ogni tanto fanno capolino e passano sulla scena, hanno denti affilati, forse sono piranha che si mangiano l’uno l’altro volteggiando, affamati e affannati, che non temono le conseguenze delle loro azioni, tutto divorano e distruggono. Come i pesci nella boccia, i personaggi del Bardo non hanno memoria e vivono a compartimenti stagni nel loro individualismo, nelle proprie urgenze, esigenze ed emergenze. Un Amleto ittico e subacqueo, imputridito nella sua acqua stagnante che profuma di morte logora: devastante, eccentrico, la Grande Bellezza. La lingua polacca non è stata affatto un problema. Avrebbe meritato un premio in ogni categoria.
Uno spettacolo magico, immane, gigantesco, illogico e irrazionale è stato “Chronologist” del DKT di Vidin, complessa macchineria dove su un terreno ondulato, ricordavano le crete senesi o le dolci colline del Chianti, composto da pannelli di compensato a creare un grande quadrato sul palco di circa 8 metri per 5 (il pubblico itinerante vi poteva ruotare attorno e cambiare prospettiva di visione) andava in scena un teatro d’oggetto artigianale e tecnologico allo stesso tempo. Gli attori, o meglio i performer, agivano sia in superficie che sotto il grande telaio. Infatti per creare le curve su questo terreno erano stati posti dei treppiede con altezza diversa. Il rumore del vento era creato da una sorta di centrifuga ruotata a mano con una manovella, la fisarmonica strizzava il cuore mentre questi piccoli personaggi assurdi e poetici apparivano e prendevano campo come mini installazioni-focus che si accendevano: un uomo sotto una doccia con le valige aveva il sapore amarissimo dell’Olocausto, corde tese ad indicare confini e frontiere, gabbie e lampioni a disegnare carceri, uomini che emergono dalla terra, dalle miniere (ricordano quelli degli scatti di Salgadonella Sierra Pelada) coperti di polvere o archeologi che scavando ritrovano reperti provenienti dal passato. Uomini rinsecchiti, animaleschi, magrissimi come Smigol del “Signore degli Anelli”, sfiniti, uomini che portano cose e fardelli, faticano con i loro carrettini stanchi; un mondo alla Mad Max. Un grande impianto di fili e cavi, pali di legno, surreale e drammatico, un vero cartoon in presa diretta: magistrale.
Da Jack London invece è tratto “On the wolf’s trail” dei serbi di Novi Sad che si è accaparrato tre tra i migliori premi, compreso il Gran Prix. Più piani per uno spettacolo aperto e imponente con un musicista dal vivo, un batterista, i rumoristi, un set centrale con attori e cani-puppet, e uno in miniatura sul boccascena con slitte e treni giocattolo. Grande uso delle luci per focalizzare e sviluppare immagini. Tutti i rumori della foresta e degli animali, cani, lupi, alci, i passi, l’acqua, la steppa, le foglie, gli uccelli, i guaiti, riprodotti con la voce per una storia brutale e violenta come è la vita. Il richiamo della foresta è dentro ogni animale e prende il sopravvento anche in quegli uomini che vivono in contesti sociali più primitivi dove la vita o la morte sono questioni di attimi e le leggi non scritte della sopravvivenza sono molto più pressanti e urgenti del politicamente corretto. Perfetti i puppet e movimentati in maniera eccezionale. Riconoscimenti meritatissimi.
Altra meraviglia è stato “The Last Man” tratto da “1984” di George Orwell, vera perla del festival, prodotto dalla compagnia dello State Puppet di Stara Zagora, organizzatori del “Pierrot” e per questo, giustamente, non in competizione. Uno spettacolo che potrebbe far gridare di gioia in ogni parte del mondo. In alto il dittatore-Grande Fratello (una cantante lirica dalla voce cristallina), sotto di lei gli adepti-sudditi-schiavi di questo mondo del futuro dove gli uomini hanno perso la libertà, la possibilità di scegliere, i nomi, diventano numeri, consumatori, esecutori di ordini, istupiditi, indottrinati, soprattutto ignoranti senza possibilità né desiderio di ribellione: lobotomizzati. Non esiste più l’individualismo in questo nuovo grigio mondo ma, come api, si lavora per il bene supremo decido dal Big Brothercon punizioni e depersonalizzazione, arresti arbitrari e uomini come automi. Le loro case sono loculi squadrati e angusti, tutto attorno a loro è militaresco, hanno eliminato la letteratura e l’arte e ormai gli umani sono ridotti a suoni gutturali, compressi in lavaggi del cervello continui. Non esiste contraddittorio né opposizione, le loro menti sono state “ripulite” dai ricordi, tutto è governato da algoritmi e chi fa domande è un nemico del popolo. Tra proiezioni, musiche, coreografie, uso dei puppet, costumi di tute futuristiche o volti incastonati dentro televisori, “The Last man” ci ha riempito gli occhi per estetica e contenuto, ci ha scaldato tristemente facendoci vedere un possibile mondo futuro che non ci piace affatto: dovrebbero vederlo tutti e farebbe furore dappertutto.