SAGUENAY (CA) – Il mondo dei puppets è talmente sfaccettato che esonda dalle categorie, travalica dalle diciture, non si riesce a infilarlo in nessun certo compartimento. Nell’universo dei puppets, che in Italia troppo spesso finisce nel calderone del “teatro ragazzi” e che invece, al contrario, all’estero ha una grande rilevanza e diritto di cittadinanza, le marionette vanno a braccetto con i pupazzi, le ombre giocano a rincorrersi con il teatro d’oggetti, grandi macchinerie si accavallano a piccole strutture, grandi storie universali per tutte le età riescono a scovare e a far riemergere il bambino ingenuo, il ragazzo sognante che dentro di noi l’adulto pedante ha messo in un angolo, in un cassetto. È questa la magia del teatro di figura che in Italia è rappresentato ai massimi livelli da festival storici come “Incanti” a Torino, “Arrivano dal mare” di Ravenna o “Segni d’infanzia” a Mantova e che vedono in Charleville, in Francia, e nella “Fira de Titelles de Lleida” vicino Barcellona, i loro esponenti più conosciuti a livello mondiale.
Tra i molti festival del settore, per la seconda volta dopo il 2017, siamo tornati in Quebec per seguire la settimana di spettacoli, mostre e incontri che il biennale Fiams, Festival international des arts de la marionnette a Saguenay, a cinque ore da Montreal, propone da trenta anni. Giorni carichi di visioni e personaggi, tra i tanti spostamenti effettuati con il lunghissimo School bus giallo che ricorda i Simpson per toccare tutte le sedi sparse sul territorio, dai teatri alle biblioteche, dall’università ai centri culturali disseminati in questa terra dove la Natura e l’uomo sembrano andare d’accordo.
Nella scorsa edizione il performer e danzatore brasiliano Duda Paiva (da anni in Olanda) ci aveva fatto sobbalzare ed emozionare con il suo storico “Blind” dove il grande pupazzo che usciva da lui, e nel quale vi infilava le gambe dandogli vita e anima e movimento, era la malattia, la patologia, il tumore che cresceva a dismisura (la sua storia vera) e si impossessava della vita dell’uomo come un parassita, inglobandolo, ingoiandoselo a poco a poco. In questa edizione si è tolto dalla scena ed ha lasciato campo a tre giovani e validi danzatori di muoversi sulle linee dei “Monstres”, gomma piuma che diventa gigantesca e riempie palco e occhi della platea. Mostri che esistono soltanto nelle favole o nella fantasia o nelle nostre paure più recondite e infantili ma che a teatro possono tranquillamente manifestarsi, apparire e convivere. I mostri di Duda Paiva hanno l’aspetto irritante e respingente ma stanno soltanto mettendo in atto quello che gli occhi della gente vede superficialmente in loro: corpi deformi, sgraziati, che incutono timore a chi cerca la perfezione (che non esiste), a chi brama la normalità (che non esiste): ecco una sorta di Gobbo di Notre Dame (o una gorgona), avvoltoi in serie, il Minotauro, la donna serpente (che potrebbe ricordare anche una sirena), un Centauro. Tutti “scherzi della Natura” beffati, irrisi ma che avrebbero solo bisogno di comprensione, di un abbraccio: da vicino nessuno è perfetto. La Bella e la Bestia insegna.
Lo avevamo visto in una Biennale Teatro veneziana di qualche anno fa (sotto la direzione del catalano Alex Rigola) ma questo “Mi gran obra”, del geniale David Espinoza, a distanza di tempo assume nuove sfumature, si amplia come aria nei polmoni, fa grancassa con l’attualità, sposta il baricentro del pensiero e ci fa sentire tutti piccolissimi nel nostro naufragio personale, che è la vita, pronti ad aggrapparci a convenzioni consolidate, a certezze fragili, a relazioni, in un’idea di eterno che si esaurisce in un soffio, quello dell’esistenza umana su questa Terra che gira imperterrita qualunque cosa accada alle nostre minuzie, ai nostri infimi giganteschi meschini infiniti dolori laceranti, strazianti dai quali nessuno può salvarci. Questi omini microscopici, di un centimetro (ci hanno ricordato il film “Downsizing” con Matt Damon o l’immarcescibile Gulliver) sono alla mercé degli eventi che non possono controllare, attendono la tragedia cercando in ogni modo di fuggirla (come faceva il cavaliere in Samarcanda). Espinoza è il grande burattinaio e giocoliere, è il domatore delle pulci (il pubblico posto su tre file segue lo spettacolo con i binocoli), il manovratore di queste minuscole anime che si agitano, immobili (come quando giocavamo da piccoli con il Lego o con i Playmobil), poggiati e fissati su carta adesiva. Ecco che scatta la metafora: siamo insetti insignificanti sulla carta moschicida alla quale rimaniamo ancorati per un po’ di tempo prima di essere spazzati via dal Demiurgo pronto a sostituirci con nuove-vecchie storie, uguali e differenti dalle precedenti. L’autore, come un Deus ex machina, accarezza e tocca i suoi micro compagni di viaggio e ci porta dentro, zoomando, qui è proprio il caso di dirlo, in piccole storie che ci appartengono, nelle quali ci sentiamo rappresentati creando quel filo sottile sotterraneo, quello specchio tra noi e le miniature sentendoci improvvisamente tutti sulla stessa barca, tutti deboli ed estirpabili dal terreno di gioco. L’artista spagnolo sembra una centralinista vecchio stampo, aggiunge mini personaggi, li toglie: ed è eccezionale come con un solo tocco, con una sola sottrazione riesca a cambiare immediatamente il senso ultimo della scena precedentemente costruita. Infatti ad un clima iniziale di leggerezza, ad ogni quadro, sopravviene e monta un clima stazionario di incertezza, uno stallo che sa di tragedia imminente, un’atmosfera lynchana o almaniana (e di rimando carveriana), effettuata con un semplice movimento, uno scardinamento, uno slittamento che illumina, che devia, che trasla l’idea fino a quel momento montata. E poi gli oggetti di uso quotidiano qui diventano scenografia e drammaturgia: il vaso di fiori che si fa cimitero, il phon che fa roteare le pale dell’elicottero, la lattina di Coca Cola che diventa panorama-fondale, i fiammiferi che si trasformano in pali delle porte da soccer, un piatto di plastica è una pista da ballo da Fever Night, il riso caduto è una duna di sabbia su di un’isola sperduta, un tamburello per simulare movimenti pelvici da copula o un terremoto. Le mani abili, agili e veloci di Espinoza trafficano rapide come un prestigiatore, tastano, cercano in cassetta dalla quale tira fuori sempre sorprese come conigli da cilindri, mettono a posto trasformando la realtà sul suo tavolo di lavoro da vero artigiano che crea mondi nuovi: accumulo e sottrazione, mettere e levare come in un gioco di scacchi, spostando una pedina muta completamente l’ottica generale: il finale è imperdibile. Piccoli grandi uomini, un piccolo grandissimo spettacolo.
Amarissima la mostra di fotografie di Alice Laloy chiamata “Pinocchio(s)” dove, nei grandi scatti, tanti bambini (ad occhi chiusi e con dipinte sulle palpebre grandi retine spaurite e fisse e vitree) come bambole interrotte, come giochi spezzati da adulti senza cuore, giacciono in stallo, rotti, buttati, abbandonati, distrutti. Con i fili ancora ben presenti e visibili, che gli escono dalla carne, come fili elettrici per dar loro l’impulso per muoversi e tornare in vita pronti nuovamente ad essere usati e abusati, i bimbi dallo sguardo immobile e senza futuro, se ne stanno esposti, maltrattati, sporchi, gettati, lasciati, caduti, accasciati, bucciati, le ginocchia e le braccia scomposte in pose innaturali, orami senza più un’anima, senza più un alito di respiro, un briciolo della spensieratezza della loro età. I fili sono rimasti infilati nelle piccole giunture, nelle ginocchia ancora da farsi, nei gomiti da svilupparsi, nei muscoli che ancora non hanno fatto capolino; ma intorno non c’è traccia di un adulto, di un genitore, di un Geppetto, neanche di un Mangiafoco pronto a salvarlo o a redarguirlo con la propria ombra. Ma nell’aria è chiara e palese la sensazione e l’atmosfera di un orco che guarda e si gode voyeurista la scena, forse proprio la fotografa dopo aver posizionato questi bambini burattinati, queste marionette infantili. Piccoli compressi in luoghi di lavoro, corpi in vendita, pedofilia allarmante, lavoro minorile, nessun diritto, nessuna famiglia alle spalle né a fianco, nessuna carezza, nessuna scuola, nessuna comprensione, nessun perdono, nessun gioco, nessun regalo a Natale, nessuna storia raccontata la sera prima di andare a letto, nessuna coperta rimboccata, nessun ti voglio bene. Bambini fatti rotolare per le scale con spinte vigliacche, bambini intrappolati in laboratori schizzati e macchiati di rosso come dopo un’autopsia o un’estrazione di organi, bambini appoggiati, parcheggiati, depositati senza vita che aspettano un adulto che non verrà, bambini tra mille gomme dal meccanico che sa di fango e olio di motore, bambini su un tavolo (operatorio?) di un falegname, per essere smontati e venduti, a pezzi, al miglior offerente, bambini pronti ad essere gonfiati con il compressore come bambole per il turismo sessuale. Tolgono il respiro questi occhi che ci guardano ma non ci vedono e fanno ancora più rumore le nostre parole che non riescono ad uscire, le nostre orecchie che sentono ma non vogliono ascoltare: “Some of them want to use you, some of them want to get used by you, some of them want to abuse you, some of them want to be abused” (Eurythmics, “Sweet dreams”).