RAVENNA – Sarebbe troppo semplice definire il burattino un pezzo di legno inanimato. E sarebbe alquanto sbagliato descrivere il connubio tra il burattinaio e il pupazzo dipingendolo come un uomo e il suo strumento di lavoro. Qui non si tratta di unire carne e sangue al legno. Da quell’innesto nasce la magia, la poesia, qualcosa di difficilmente riproducibile, ne sgorga polvere di stelle in un unico, indissolubile legame tra la pelle, che presta il suo movimento, e la stoffa che si anima, prende vita e colore, assume un’anima, una coscienza, una consapevolezza, diventa un essere a sé stante, con le sue ambizioni e pulsioni, gioie e tensioni. Alchimia, non c’è altra parola per descrivere il filo che lega burattinaio e marionetta, due cose distanti che, sul palco nel momento dello spettacolo, si fondono senza più riuscire a capire dove comincia l’uno e dove finisce l’altro. In molti modi è declinabile il Teatro di Figura e il “Festival Internazionale Arrivano dal Mare” (titolo di questa edizione: GenerAzioni), rinnovato e rinvigorito dalla FamigliaMonticelli, grande longevità alla 43esima edizione (tra Ravenna, Cervia, Gambettola, Gatteo e Longiano), ce ne ha mostrato le varie sfumature e discipline in un ventaglio di proposte alte e popolari insieme: il filo, il cunto, i piedi, la mano, i disegni animati.
Di solito quando diciamo che una cosa è fatta con i piedi intendiamo che è fatta male anche se con i piedi si danza sulle punte, si corre a perdifiato, si gioca a calcio. I piedi sono libertà, ma nel linguaggio comune sono bistrattati e messi sempre in secondo piano rispetto alle mani. Ad esempio tutti conoscono i nomi delle dita di una mano, mignolo, anulare, medio, indice e pollice, e pochi quelli dei piedi. Eccoli: alluce, illice, trillice, pondulo e mellino. Ma anche con i piedi è possibile fare molto, fare tanto, fare qualcosa di eccezionale come Laura Kibel con il suo sensibile “Va dove ti porta il piede” che riprende, parodiandolo, il successo della Tamaro, mostrandoci quante cose possono diventare alluci e calcagni. Nessun feticismo. Decine le valige colorate sul palco ed ognuna delle quali contiene mondi e universi di personaggi e spettacoli. La Kibel, vera Maestra e artista di questa particolare branchia che ha un lato acrobatico, da ginnasta e circense, sciorina, facendo diventare i suoi piedi angeli e diavoli, un anziano sul ginocchio, un simpatico toreador spagnolo che lotta con un toro picassiano, che grazie alle note di Besame mucho riesce a trasformare la bandiera di McDonald che gli viene sventolata in faccia in quella del WWF. Spettacolare il parterre di pappagalli e tucani sudamericani come il Pulcinella arrestato dai Carabinieri (come non pensare prima a Pinocchio e poi al “Giudice” di De Andrè?), il direttore d’orchestra dai capelli a pagliaio e le mani gigantesche come il clown a metà strada tra Profondo Rosso, ispirato all’It di Stephen King, e i Simpson, suggerito da Krusty. Un lavoro intelligente.
Piccolo e gentile quanto affascinante e vintage è il mini carrozzone del norvegese Teater Fusentast dove, per quattro spettatori alla volta immersi in una sorta di cannocchiale, al suo interno si svolgono le vicende del “Parisian pillow case”, ovvero il caso del cuscino parigino. E’ una storia semplice di amore e nostalgia per le cose vecchie ma che hanno importanza anche se non hanno valore, passando per una critica all’arte contemporanea e alla stupidità delle mode e di come gli esseri umani possano essere influenzabili. Un uomo che, durante un viaggio a Parigi, perde il suo amato cuscino dal quale, come coperta di Linus, non si separa mai. Un feticcio, sgualcito e usurato, riesce ad attrarre una serie di personaggi per un on the road (6 minuti la durata) di una carrellata di disegni che s’animano e scorrono davanti ai nostri occhi che tornano bambini: il cuscino, quasi una sorta di Forrest Gump che si trova nelle situazioni più disparate, arriva in testa al Primo Ministro in una parata, finendo nelle mani di un clochard che non ne ha mai avuto uno, viene rubato da un gabbiano, barattato al mercato del pesce (qui ci è venuto in mente l’incipit del romanzo “Profumo” di Suskind), sgraffignato da un gatto (senza gabbianella) fino ad arrivare in una galleria d’arte e cambiare la moda parigina. E’ la differenza tra prezzo e importanza, tra costo e affettività, ben spiegata dalla poesia “Considero valore” di Erri De Luca.
Ci sono incontri che cambiano la vita o almeno mutano la percezione del reale, delle prospettive, delle priorità. E la marionetta riesce sempre, con la sua plasticità e ingenuità, e rimettere le cose a posto, a rintracciare i fili, far capire le dinamiche, cercare traiettorie più vere. E’ la storia di Horacio Peralta, rocambolesca e avventurosa, dall’Argentina passando per Panama, approdando a Parigi, girovagando con la sua valigia di personaggi, ed oggi stanziale a Valencia. Che poi “Il Burattinaio”, il titolo del suo spettacolo che riassume la sua vita artistica e personale, inevitabilmente intrecciate, non può essere stanziale e sedentario in un unico luogo, deve andare, muoversi, ce l’ha nel dna il movimento, a volte la fuga. Horacio ci parla di amore per la vita, del lasciarsi andare all’oggi, del prendere da ogni casuale incontro, del sapere vedere la fortuna ad ogni bivio, di abbracciare il domani con ottimismo, lui scappato dalla dittatura argentina diretto a Panama con pochi averi. In un continuo palleggiarsi tra la vita reale, i suoi ricordi, le sue memorie, e le figure da lui ideate, che si affacciano sul palco, presentandosi e prendendo forma, ci fa conoscere Maria e Pier due personaggi che Horacio ha fatto vivere lavorando nelle carrozze del metrò nei freddi inverni parigini. E’ quest’arte d’arrangiarsi che fa in modo di trovare soluzioni e nuove direzioni, senza mai fermarsi, senza mai abbandonare, senza mai mollare o sentirsi sconfitti o demoralizzati. Ripercorre la sua vita, che è la sua carriera, di personaggi stralunati e teneri come lo scultore o come il dolcissimo mostro peloso, simile ad uno struzzo, che s’imbatte in una sua simile e scatta l’amore a prima vista. Pupazzi che hanno un’anima come il suo “Idiota” scimmiesco e stupido che si ribella al suo creatore e richiede un’autonomia tutta sua, come la “Vecchia” che sta sempre in una scatola e quando esce non ne vuol sapere di rientrarvi, protestando e mettendo in dubbio le facoltà intellettive e “psichiche” del burattinaio in uno sdoppiamento della personalità che apre la porta a molte riflessioni. Infine “La Morte” che ci lascia con quelle che potrebbero essere le parole che meglio riescono a descrivere la vita di Horacio: “Buon viaggio, approfittatene”. Una leggerezza profonda ci pervade, commozione e riso si mischiano.
Una vera lectio magistralis è quella che intavola invece Mimmo Cuticchio, voce imponente tenorile così come la figura che incute rispetto e autorevolezza, voce solida gassmaniana, barba da Mangiafoco, è deciso e intenso, ha carisma, potenza, presenza. E’ un viaggio il suo a ritroso nelle origini della sua famiglia, nella Sicilia degli anni ’50, ’60 e ’70, ma anche un caleidoscopio per capire l’arte, il teatro, le sue trasformazioni sociali durante il dopoguerra, mentre l’Italia stava cambiando grazie al cinema, alla televisione, al turismo. Siamo in una chiesa, consacrata, ed è affollata come difficilmente lo sono questi luoghi la domenica. Starlo a sentire è una gioia per le orecchie. Un uomo che si è fatto da solo, che ha messo a frutto gli insegnamenti, sul campo, del padre e di un Maestro. Cuticchio, qui senza pupi, nel suo circolare “recitar cantando”, ad occhi chiusi, nella sua armoniosa voce dei carrettieri, ora rude altre enfatica, con quei colpi di spada nell’aria e a terra con il piede da far risvegliare i morti da far rimbombare le pareti e l’anima, la rottura sincopata in apnea delle frasi, ci racconta dei genitori e dei sette fratelli, di una gioventù sul palco, a montarlo, recitarci, dormirci, dei 371 canovacci e trame su Carlo Magno e i Paladini di Francia nei quali il padre aveva suddiviso le gesta eroiche, dei 400 pupi che avevano appesi alle pareti. L’arrivo dei Cuticchio nei paesini, quando cinema e tv non c’erano, era un appuntamento atteso tutto l’anno, come una soap anni ’80, come una fiction anni ’90, come una serie tv d’oggi. Nelle sue parole c’è la storia del teatro ma anche quella sociologica di un Paese che stava uscendo dalla miseria. Dopo tanto girovagare i Cuticchio tornano a Palermo stanziali perché i pupi non attirano più nei piccoli centri soppiantati dalla televisione ma anche da biliardini, flipper e juke box che attirano i più giovani. Una sconfitta che diventa rinascita e possibilità: a Palermo i Cuticchio attirano i turisti, siamo nei ’70, che arrivano da tutto il mondo. Ma i turisti, soprattutto i tour operator, anche se alle origini, chiedono ai pupari di portare in scena sempre lo stesso copione.